domenica 28 ottobre 2012

Agenzia digitale, il direttore è Agostino Ragosa (Poste Italiane)



26 OTTOBRE 2012
L’Agenzia digitale ha finalmente il suo direttore. Dopo settimane di attesa e molti colloqui presso il ministero dello Sviluppo, secondo quanto risulta al Sole24Ore.com, il Governo Monti ha scelto Agostino Ragosa, originario di Salerno, classe 1950, ingegnere delle telecomunicazioni, per guidare la struttura che farà da cabina di regìa delle attività pubbliche legate all’innovazione digitale. Ragosa è attualmente responsabile in Poste Italiane di tutto il settore innovazione. La sua nomina sarebbe dovuta diventare ufficiale nel Consiglio dei ministri di oggi, ma è slittata a martedì. A quanto si apprende Ragosa dovrebbe lasciare l'incarico in Poste Italiane per dedicarsi completamente al suo nuovo ruolo.

Chi è Agostino Ragosa, il (probabile) direttore dell’Agenzia Digitale

Di origini salernitane, 62 anni, una laurea in Ingegneria Elettronica e Telecomunicazioni, Ragosa ha fatto parte della Direzione Operativa di Italcable, contribuendo nel 1994 alla nascita di Telecom Italia, azienda nella quale ha poi ricoperto il ruolo di Direttore Servizi della Clientela Retail, della Business Integration e della Società Learning Services.


In seguito ha fatto parte del Consiglio di Amministrazione di Telespazio (società che opera nel campo dei servizi satellitari), di Telesoft (l’azienda che gestiva i sistemi software del gruppo SIP, poi confluita in Telecom Italia) e Atesia.
Nel 2004 passa a Poste Italiane, dove ricopre il ruolo di CIO oltre che membro del Cda di Postecom. Il suo nome è circolato molto lo scorso anno, durante la paralisi estiva dei sistemi informatici di Poste Italiane, come possibile capro espiatorio nello scarica barile che c’è stato tra l’azienda e HP, partner e fornitore delle piattaforme utilizzate.
Per quello che riguarda la sua candidatura all’Agenzia Digitale, il suo nome circolava già da qualche giorno nella rosa di papabili favoriti, insieme a Fuggetta, Mizzi e Parisi, ma la scelta del candidato potrebbe già dare vita a qualche polemica.
La nomina è infatti appannaggio del Consiglio dei Ministri ma nell’ultima riunione del 26 ottobre non è stata fatta alcuna scelta, come testimoniato anche dal verbale ufficiale. Il prossimo Cdm è previsto per martedì 30 c.m., ma come sostenuto da Daniele Lepido (il primo ed unico ad aver dato la notizia sul suo blog), in tale data verrà solo ufficializzata una candidatura che a quanto pare è già stata decisa (il fatto che Ragosa fosse uno dei nomi più quotati, non fa che confermare l’ipotesi).
Da chi è stato scelto allora? E quando?
Un’altra perplessità può nascere poi proprio dalla scelta di Ragosa. Senza nulla voler togliere alla sua provata esperienza, è davvero un 62enne la persona più adeguata a guidare il Paese verso la nuova era di internet e della digitalizzazione? Tra le centinaia di curricula pervenuti, non c’era nessuno di altrettanto competente ma al tempo stesso distante dai soliti giri di poltrone?
Naturalmente si tratta solo di speculazioni, non essendo stata ancora ufficializzata la nomina ma le precedenti esperienze, come ad esempio AgCom, hanno mostrato come il Governo Monti in tema di innovazione dimostri una certa miopia quando il discorso si sposta sull’assegnazione delle poltrone.
L’auspicio di certo è che, a prescindere se Ragosa venga o meno confermato, l’esecutivo dimostri di aver operato in totale trasparenza, vagliando davvero le candidature e scegliendo chi davvero merita un ruolo strategico di tale importanza. Lasciando a casa, almeno una volta, il manuale Cencelli.

mercoledì 24 ottobre 2012

Interessante iniziativa legale FILP – Federazione Italiana Lavoratori Postali: Poste Italiane non ottempera alla sentenza esecutiva n.435 del 18 marzo 2011 del Tribunale Amministrativo Regionale di Brescia dichiarando che i documenti richiesti dal dipendente con la richiesta dell’accesso agli atti sono inesistenti. Ieri 23 ottobre 2012 il TAR di Brescia condanna le Poste Italiane al pagamento delle spese a favore del ricorrente di 2750 euro, nonché al rimborso del contributo unificato del ricorrente anticipato e contestualmente le Poste Italiane consegnano al dipendente la documentazione richiesta.


N.             01719/2012       REG.PROV.COLL.
N.             01026/2012       REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1026 del 2012, proposto da:
Andrea De Biase, rappresentato e difeso dall'avv. Aldo Augusto Bellitti, con domicilio eletto presso Aldo Augusto Bellitti in Brescia, v.le Italia, 2; 
contro
Poste Italiane, rappresentata e difesa dall'avv. Loreto Severino, con domicilio eletto presso Loreto Severino in Brescia, Filiale di Poste Italiane via Gambara 10; 
per l'ottemperanza
della sentenza n. 435/2011 del 18/3/2011.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Poste Italiane;
Viste le memorie difensive;
Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2012 la dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso in esame è stata richiesta l’esecuzione della sentenza che riconosceva al ricorrente il diritto di accesso ad una pluralità di documenti detenuti da Poste Italiane s.p.a. e relativi ai lavoratori da tale società assunti a tempo determinato.
A fronte dell’istanza, l’amministrazione ha sostenuto, nella propria difesa, che gli atti richiesti non avrebbero più avuto alcuna utilità per il richiedente, essendo ormai conclusa l’istruttoria per la pronuncia del giudice del lavoro nella causa intentata dallo stesso sig. De Biase, a tutela delle sue rivendicazioni in ordine al riconoscimento della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato intercorso con la società resistente, in uno a tempo indeterminato.
Con una memoria che si pone ai limiti del legittimo diritto di critica dell’avversa posizione, Poste Italiane ha affermato che la sentenza avrebbe ordinato l’esibizione di atti non esistenti.
Quanto sostenuto risulta, però, del tutto privo di fondamento, atteso che, come dallo stesso ricorrente dichiarato, la sua pretesa è stata pienamente soddisfatta mediante il rilascio della documentazione indicata in sentenza e, più precisamente, dei “cedolini” relativi all’interessato, del prospetto organico relativo al CMP Brescia, del mod. 70P relativo all’ufficio CMP Brescia.
Ne deriva, dunque, la sopravvenuta cessazione della materia del contendere.
Le spese del giudizio seguono l’ordinaria regola della soccombenza virtuale e debbono essere liquidate nella misura in dispositivo indicata, pari al cinquanta per cento del compenso globale richiesto con nota spese, che il Collegio ritiene equa alla luce di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 4 del D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140, secondo il quale “Nella liquidazione il giudice deve tenere conto del valore e della natura e complessità della controversia, del numero e dell'importanza e complessità delle questioni trattate, con valutazione complessiva anche a seguito di riunione delle cause, dell'eventuale urgenza della prestazione”.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando dichiara la cessazione della materia del contendere.
Condanna Poste Italiane al pagamento delle spese a favore del ricorrente, che liquida in Euro 2.750,00 (duemilacinquecento/00), nonché al rimborso del contributo unificato dal ricorrente anticipato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Calderoni, Presidente
Stefano Tenca, Consigliere
Mara Bertagnolli, Primo Referendario, Estensore




 
 
L'ESTENSOREIL PRESIDENTE
 
 
 
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/10/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

sabato 20 ottobre 2012

Poste Italiane premia l'ufficio postale Termoli Centro


TERMOLI, 19 ottobre 2012 -  Nel corso del Meeting che si è svolto a Ostuni Marina le Poste Italiane hanno premiato gli uffici postali che hanno raggiunto risultati di eccellenza nell’offerta alla clientela della vasta gamma di servizi e prodotti postali, finanziari e di comunicazione. In occasione del Meeting di Poste Italiane e Cassa Depositi e Prestiti sul tema del risparmio postale e della qualità dei servizi mirati alla soddisfazione di milioni di clienti, un importante riconoscimento per i primati ottenuti nella classifica assoluta è spettato all’ufficio postale Termoli Centro in Via Mario Milano rappresentato dalla direttrice Gabriella Lascialandà. 
La manifestazione si è tenuta presso il Grand Hotel Masseria S. Lucia di Ostuni Marina e all’evento erano presenti, tra gli altri, il responsabile Area Territoriale Sud 1 (Puglia, Basilicata, Molise), Roberto Minicuci, 9 direttori di Filiale e numerosi collaboratori selezionati tra le strutture di staff e commerciali, oltre ai 310 direttori degli uffici postali più rappresentativi dell’intera Area. Sul tema del risparmio, Minicuci ha sottolineato come “Libretti e Buoni Fruttiferi, tradizionali prodotti di Cassa Depositi e Prestiti legati al risparmio postale, e l'insieme di persone, conoscenze e strutture che ne permettono la loro diffusione, testimoniano come il gruppo Poste Italiane contribuisca al finanziamento dello sviluppo e costituisca il motore della crescita del sistema Paese”.


News Termoli

venerdì 19 ottobre 2012

Poste Italiane inaugura l’era dei pagamenti NFC



Grazie all’integrazione tra le SIM telefoniche di Poste Mobile, la tecnologia NFC e i servizi di Pagamento BancoPosta, da dicembre si potranno pagare prodotti e servizi con lo smartphone
17 ottobre  2012 – Poste Italiane ha annunciato un sistema di pagamento “contactless” tramite tecnologia NFC che permetterà di fare shopping nei negozi abilitati e pagare gli acquisti direttamente via telefonino. Il tutto sarà possibile,grazie all’integrazione tra i servizi di comunicazione di PosteMobile, operatore telefonico del Gruppo Poste Italiane, e quelli di pagamento di BancoPosta. A breve la tecnologia NFC sarà in dotazione anche negli uffici postali e sui palmari dei portalettere telematici per consentire ai clienti il pagamento di bollettini, raccomandate o pacchi tramite cellulare.  La SIM PosteMobile di nuova generazione permetterà di fare acquisti nei punti vendita che adottano già il sistema NFC. I primi uffici postali a commercializzarla, dal prossimo dicembre, saranno a Milano.
Il meccanismo di utilizzo è molto semplice:  con la SIM NFC di PosteMobile, nella quale è già integrata una carta prepagata Postepay NFC “smaterializzata”, il telefonino dialogherà con i nuovi POS abilitati ai  pagamenti in prossimità. Basterà quindi avvicinare il cellulare al lettore per eseguire l’operazione di pagamento. Per gli importi fino a 25 euro non ci sarà neppure la  necessità di digitare il PIN, che rimarrà invece obbligatorio per importi superiori.
Nel prossimo futuro l’applicazione NFC consentirà anche di rendere disponibili sul cellulare anche servizi  di e-Government della Pubblica Amministrazione per l’identificazione e il riconoscimento digitale, smaterializzando e trasferendo direttamente sulla SIM la carta d’identità, il passaporto, la tessera sanitaria, la patente e la firma elettronica.

Nel cedolino della busta paga del mese di dicembre 2012 ad alcuni lavoratori di Poste Italiane verrà decurtato lo stipendio anche fino a mille euro di conguaglio fiscale per l’applicazione del D.P.C.M. 23 marzo 2012 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 maggio 2012.



Per molti dipendenti delle Poste Italiane che operano nei Centri di Meccanizzazione Postale o altri Centri di Smistamento per la Distribuzione e hanno svolto l’attività lavorativa nei turni rotativi, notturni e festivi e hanno prestano costantemente lavoro di straordinario dal mese di gennaio al mese di maggio di quest’anno, si vedranno decurtare anche fino a 1000 euro (in alcuni casi anche oltre) nel conguaglio fiscale nel cedolino della busta paga nel mese di dicembre 2012.

Infatti, la detassazione del lavoro straordinario e dei premi di produttività dei lavoratori dipendenti del settore privato, che prevede l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali regionale e comunale, con aliquota del 10%, era stata confermata per il 2012 dalla legge di stabilità dello scorso anno (legge 183/2011, articolo 33, comma 12).

Con il decreto del presidente del Consiglio dei ministri 23 marzo 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 125 del 30 maggio, è stato stabilito l’importo massimo assoggettabile alla tassazione agevolata e il limite di reddito per l’accesso al beneficio.
 
Il provvedimento fissa il tetto dell’importo su cui calcolare l’imposta sostitutiva in 2.500 euro lordi (lo scorso anno erano 6mila). Possono accedere al regime di favore coloro che, nel 2011, sono risultati titolari di redditi di lavoro dipendente per non più di 30mila euro, comprese le somme eventualmente assoggettate alla stessa imposta sostitutiva (nel 2011 l’agevolazione riguardava chi nel 2010 aveva avuto redditi di lavoro dipendente non superiori a 40mila euro).
 
L’agevolazione, che è a carattere sperimentale e mira a sostenere e incentivare la produttività delle imprese, si riferisce alle somme corrisposte per lavoro straordinario, lavoro notturno e festivo e alle indennità per le turnazioni, se collegate all’aumento della redditività aziendale.

Questa Organizzazione sindacale FILP – Federazione Italiana Lavoratori Postali si sta attivando per far presentare dai rappresentanti legislativi alcuni  emendamenti o altre iniziative nella Legge di Stabilità che approda prossimamente alla Camera dei Deputati per modificare il Decreto Presidente Consiglio dei Ministri 23 marzo 2012 (pubblicata in G.U. il 30 maggio 2012) e riportare l’imposta sostitutiva in 6.000 euro lordi e almeno 35.000 il reddito per accedere al regime di favore.

C'è solo da attendere con animo fiducioso.
Il Segretario Generale
FILP - Federazione  Italiana Lavoratori Postali
Giuseppe Giordano


Interrogazione alla Camera su eventuale danno di natura economica per chi ha affidato i propri risparmi ai prodotti di Poste Italiane garantiti dallo Stato



Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-18142
presentata da
ROCCO GIRLANDA
mercoledì 17 ottobre 2012, seduta n.705
On. Rocco Girlanda

GIRLANDA. - 
Al Ministro dell'economia e delle finanze.
 - Per sapere - premesso che:



in relazione all'annunciata intenzione dell'esecutivo di procedere alla vendita di parte del patrimonio immobiliare dello Stato, il centro studi dell'associazione culturale Destra Civis ha evidenziato come in questa dinamica potrebbe celarsi un danno di natura economica per chi ha affidato i propri risparmi ai prodotti di Posteitaliane garantiti dallo Stato;


l'esigenza di trasparenza in un'operazione che ha come obiettivo l'abbattimento del debito pubblico impone l'esigenza di valutare in ogni singolo dettaglio la fattibilità e la sostenibilità di tale operazione, tanto più in relazione ad un suo eventuale affidamento tramite la Cassa depositi e prestiti;


dai risultati dello studio emergerebbe, infatti che la vendita dei beni dello Stato potrebbe non avere come riferimento il reale valore di libero mercato, ma potrebbe essere un prezzo di cessione stabilito in pieno conflitto di interesse tra il Governo, proprietario dei beni in vendita, e la Cassa depositi e prestiti, ente controllato dal medesimo Governo, che acquista;


tale conflitto esporrebbe la transazione ad una grave distorsione aprendo alla possibilità di fissare il valore di cessione dei beni al di sopra del prezzo di mercato, vedendo così indirettamente coinvolto il cittadino, che a sua insaputa, potrebbe vedere utilizzata la liquidità depositata presso le PosteItaliane, per legge veicolata in Cassa depositi e prestiti per la gestione, per l'acquisto di beni dello Stato ad un prezzo superiore al loro valore effettivo -:



se quanto segnalato in premessa corrisponda al vero con riferimento all'analisi condotta dall'associazione Destra Civis e soprattutto in relazione all'intenzione di coinvolgere in questa operazione la Cassa depositi e prestiti, con le conseguenze che da ciò possono derivare in relazione alla legislazione vigente. (4-18142)

domenica 14 ottobre 2012

Ha la Porsche ma ruba 15mila euro in ufficio: arrestato impiegato delle Poste



Il reato contestato è quello di peculato: l'uomo si è appropriato della somma sottraendola dalla cassaforte di "Poste Imprese". E' successo alle Poste Centrali di Vasto


Aveva un alto tenore di vita: proprietario di immobili e sino a poco tempo titolare di una Porsche Cayenne, eppure ha rubato un'ingente somma, per giunta sul posto di lavoro.
carabinieri del nucleo operativo di Vasto sono arrivati a lui al termine di una complessa indagine e lo hanno arrestato. Il "ladro" è un dipendente delle Poste Centrali del luogo, R.P. E' accusato di peculato: lo scorso 31 agosto avrebbe sottratto dalla cassaforte di Poste Imprese circa 15 mila euro.
In realtà, quello di agosto non sarebbe stato l'unico ammanco verificatosi alle Poste di Vasto: gli investigatori contano almenotre furti recenti. Per questo le indagini sono ancora in corso.
Il dipendente, nella cui abitazione i carabinieri hanno sequestrato una somma di denaro contante ritenuta collegata al delitto, ora è agli arresti domiciliari.

Redazione - 11 ottobre 2012
ChietiToday

sabato 13 ottobre 2012

Sentenza integrale della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimi i tagli agli stipendi dei magistrati superiori a 90.000 euro lordi annui ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro.



Deposito del 11/10/2012

Sentenza 223 del 08/10/2012 depositata il 11/10/2012
Udienza Pubblica del 03/07/2012, Presidente: QUARANTA, Redattore: TESAURO

Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica - Contenimento della spesa in materia di pubblico impiego - Personale di cui alla legge n. 27 del 1981 (magistrati e categorie equiparate) - Previsione che non siano erogati né recuperabili gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012; che per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 sia pari alla misura già prevista per l'anno 2010 ed il conguaglio per l'anno 2015 venga determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014 - Previsione, altresì, per detto personale, che l'indennità speciale, di cui all'art. 3 della legge n. 27 del 1981, spettante per gli anni 2011, 2012 e 2013 sia ridotta del 15% per l'anno 2012 e del 32% per l'anno 2013. (tutte le ord.); Dipendenti delle amministrazioni pubbliche - Trattamento economico - Prevista riduzione, per i trattamenti economici superiori a 90.000 euro lordi e a 150.000, rispettivamente del 5% e del 10% dei predetti importi. (Ord. 46/12, 53/12, 54/12, 74/12, 75/12); Modalità di erogazione dell'indennità di buonuscita, indennità premio di fine servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una tantum comunque spettante a seguito della cessazione, a vario titolo, dell'impiego. (Ord. 54/12, 74/12); Trattamenti di fine rapporto - Previsione che gli stessi sono integralmente regolati in base all'art. 2120 c.c., con applicazione dell'aliquota del 6,91% - Ord. 54/12.
Dispositivo: 
illegittimità costituzionale parziale - manifesta inammissibilità

SENTENZA N. 223
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 9, commi 2, 21 e 22 e 12, commi 7 e 10 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, con ordinanza del 23 giugno 2011, dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte con ordinanza del 28 luglio 2011, dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto con ordinanza del 15 novembre 2011, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con ordinanza del 14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia con ordinanza del 14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo, sezione di Pescara, con ordinanza del 13 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, con due ordinanze del 25 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, con ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con due ordinanze del 1° febbraio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, con ordinanza del 22 febbraio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, con ordinanza dell’11 gennaio 2012 e dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, con ordinanza del 10 gennaio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 219 e 248 del registro ordinanze 2011 ed ai nn. 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 75, 76, 81 e 94 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 7, 9, 14, 15, 17, 18, 19 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Allegro Anna ed altri, di Baglivo Antonio ed altri, di Bruni Bruno Francesco ed altri, di Abate Francesco ed altri, di Bruno Eleonora ed altri, di Campo Lucia Anna ed altri, di Angeleri Alessandra ed altri, di Chiappiniello Agostino ed altri, di Anedda Ornella ed altri, di Casanova Cinzia ed altri, di Arena Annalisa ed altri, di Cicciò Giacomo, di Interlandi Caterina ed altri, nonchè gli atti di intervento di Abbritti Paolo e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Vittorio Angiolini per Allegro Anna ed altri, per Baglivo Antonio ed altri, per Bruni Bruno Francesco ed altri, per Abate Francesco ed altri, per Bruno Eleonora ed altri, per Campo Lucia Anna ed altri, per Angeleri Alessandra ed altri, per Anedda Ornella ed altri, per Casanova Cinzia ed altri, per Arena Annalisa ed altri, per Cicciò Giacomo, per Interlandi Caterina ed altri, Sandro Campilongo per Chiappiniello Agostino ed altri, e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Considerato in diritto
1.— Sono sottoposte all’esame della Corte 15 ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 219, 248 del 2011; 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 75, 76, 81 e 94 del 2012), con le quali i TAR per la Campania, Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Trento, Umbria, Sardegna, Liguria, Calabria, Emilia-Romagna e Lombardia hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’articolo 9, commi 22 (tutte le ordinanze – alcune di esse indicando anche il comma 21), nonché del comma 2 (le sole ordinanze r.o. n. 46, 53, 54, 73, 74 e 75 del 2012); dell’articolo 12, comma 7 (le ordinanze r.o. nn. 54 e 74 del 2012); dell’articolo 12, comma 10 (la sola ordinanza r.o. n. 54 del 2012) del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 24, 36, 42, 53, 97, 100, 101, 104, 108, 111, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
1.1.— Le questioni hanno ad oggetto, in parte, le stesse norme, censurate con argomentazioni in larga misura coincidenti, e, quindi, va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
2.— Tutte le ordinanze in esame, emesse nel corso di giudizi proposti da magistrati ordinari, contabili ed amministrativi, censurano, sotto diversi profili, l’art. 9, comma 22, del decreto-legge summenzionato (quelle iscritte al reg. ord. nn. 12, 53, 74 e 75 del 2012 in combinato con il comma 21); alcune di esse censurano anche il comma 2 dell’art. 9; le ordinanze nn. 54 e 74 del 2012 hanno ad oggetto anche l’art. 12, comma 7; infine, la sola ordinanza n. 54 dubita della legittimità costituzionale anche del comma 10 del medesimo articolo 12.
2.1.— I rimettenti premettono che la disciplina censurata si ricaverebbe dal complesso normativo dei commi 21 e 22 del d.l. n. 78 del 2010, in quanto per i magistrati, così come per tutte le altre categorie del personale non contrattualizzato, verrebbe introdotto un “blocco” dei “meccanismi di adeguamento retributivo” previsto dal primo periodo del comma 21, la cui operatività sarebbe estesa sia a livello di acconto che a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo) dal primo periodo dell’art. 22. Inoltre, ai soli magistrati verrebbe operata una riduzione crescente nel tempo dell’indennità giudiziaria e verrebbero introdotti, sempre in forza dell’art. 22, “tetti” all’acconto per l’anno 2014.
In relazione a tale disciplina, vengono, in primo luogo, sollevate questioni di legittimità costituzionale relative al complessivo intervento riguardante sia il cosiddetto “blocco degli adeguamenti”, sia la riduzione della speciale indennità di cui all’articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura).
In particolare, le ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 46, 53, 54, 56, 63, 76, 81 e 94 del 2012, assumono che la disciplina in questione contrasterebbe con l’art. 104, primo comma, della Costituzione, in quanto, rappresentando il c.d. adeguamento automatico un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei magistrati, diretto alla «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza», la misura adottata violerebbe il principio in virtù del quale il trattamento economico dei magistrati non sarebbe «nella libera disponibilità del potere legislativo» e dovrebbe non soltanto essere «adeguato» alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della Costituzione), ma anche va «certo e costante, e in generale non soggetto a decurtazioni (tanto più se periodiche o ricorrenti)».
Tale disciplina contrasterebbe, altresì, con gli artt. 3, 100, 101, 104 e 108, della Costituzione, in quanto realizzerebbe una irragionevole decurtazione del trattamento retributivo dei magistrati, il quale è caratterizzato da un automatismo legale, che si pone «come guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell’autonomia ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche sul piano economico», con la conseguenza che una simile manovra obbligherebbe il magistrato (come singolo o come Ordine) a rivendicazioni economiche verso i pubblici poteri.
Viene, inoltre, evocata (ordinanze r.o. nn. 54, 63 e 94 del 2012) la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., in quanto tali misure, intrinsecamente irragionevoli, sarebbero inserite in una manovra priva di dimensione solidaristica.
3.— A tutte queste censure che, come detto, riguardano il comma 22 complessivamente considerato, si aggiungono altri profili che specificano ulteriormente la prospettata illegittimità costituzionale, anche con riferimento al principio di tutela dell’affidamento ed all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria, necessario a garantire un processo giusto ed equo davanti ad un tribunale indipendente, come previsto dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
4.— Con specifico riferimento al meccanismo di blocco temporaneo degli adeguamenti stipendiali, i rimettenti, oltre a richiamare il nucleo fondamentale di censura costituito dalla asserita violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sostengono che la disciplina in esame non avrebbe tenuto conto della giurisprudenza di questa Corte, in relazione alla necessità che simili interventi debbano essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso».
5.— Con riguardo all’indennità giudiziaria prevista dall’art. 3 della legge n. 27 del 1981, a giudizio dei TAR rimettenti, le decurtazioni operate avrebbero tutte le caratteristiche elaborate dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie alcune entrate. In particolare, si tratterebbe di una prestazione doverosa, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, collegata alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.
Secondo i rimettenti, la qualificazione come mera riduzione di spesa non riuscirebbe ad escludere la reale natura tributaria delle misure.
Ciò posto, sarebbe evidente l’illegittimità dell’art. 9, comma 22 (ed anche della disposizione riguardante il “contributo di solidarietà” di cui al comma 2), in quanto il legislatore, a parità di capacità contributiva ed in violazione dell’art. 53 della Costituzione, avrebbe deciso di colpire, con misure continuative, solo una particolare e ristretta classe di contribuenti.
Sussisterebbe, dunque, la violazione degli artt. 3, 23 e 53 della Costituzione, in quanto, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata si concreterebbe in una prestazione patrimoniale imposta di natura sostanzialmente tributaria.
I rimettenti sostengono che sarebbe violato, altresì, l’art. 36 della Costituzione, poichè, essendo il trattamento economico del magistrato considerato adeguato solo in quanto integrato dalla indennità giudiziaria, la decurtazione di quest’ultima determinerebbe un’alterazione dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi, incidendo solo sull’aspetto quantitativo della retribuzione.
La misura violerebbe, inoltre, l’art. 3 della Costituzione, perché la riduzione percentuale di un’indennità fissa, destinata a compensare gli oneri del lavoro giudiziario, colpirebbe in modo maggiore i magistrati con minore anzianità di servizio, notoriamente impegnati in sedi disagiate con esposizione a rischi ed oneri spesso di fatto maggiori dei colleghi più anziani.
6.— I TAR per l’Abruzzo, Umbria e Calabria (reg. ord. nn. 46, 53, 54, 74 e 75 del 2012) impugnano, anche l’art. 9, comma 2, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, in relazione al taglio del trattamento economico complessivo oltre i 90.000 euro ed oltre i 150.000 euro.
I rimettenti assumono che tale intervento finanziario, piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale (melius, come una riduzione dei trattamenti economici), avrebbe natura tributaria.
Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53 della Costituzione, trattandosi di prelievo di natura tributaria, che colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero rientrano i magistrati), in contrasto con il principio della «universalità della imposizione». L’imposta sarebbe, inoltre, discriminatoria, sia in relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale i dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di capacità economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”, risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati. Tale effetto discriminatorio sarebbe ancor più evidente alla luce della diversa disciplina riservata al contributo di solidarietà oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini, dall’art. 2 del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
7.— I TAR per l’Umbria e per la Calabria (reg. ord. nn. 54 e 74 del 2012) censurano anche il comma 7 dell’art. 12 del più volte citato d.l. n. 78 del 2010, che consentendo lo scaglionamento delle corresponsione dell’indennità (fino a tre importi annuali, a seconda dell’ammontare complessivo della prestazione), determinerebbe una perdita patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata previsione di interessi per la dilazione del pagamento, in deroga alla disciplina delle obbligazioni pecuniarie.
8.— Infine, il solo TAR per l’Umbria, con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 54 del 2012, censura il comma 10 dell’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, il quale dispone che sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, si applica l’aliquota del 6,91%, senza determinare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato). Il regime risultante violerebbe gli articoli 3 e 36 della Costituzione, in quanto la trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, produrrebbe una riduzione dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato.
9.— In via preliminare, con riferimento al giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, va dichiarata l’inammissibilità dell’atto di intervento ad adiuvandum spiegato da Abbritti Paolo, magistrato ordinario, intervenuto nel giudizio a quo con atto depositato solo successivamente all’ordinanza di rimessione e, quindi, allorché tale giudizio era stato già sospeso.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura» (per tutte, sentenze n. 304, n. 293 e n. 199 del 2011; n. 151 del 2009).
In applicazione di detto principio, poiché nel caso di specie, tenuto conto del tempo in cui è stato spiegato l’intervento nel giudizio principale e della mancata pronuncia sullo stesso da parte del TAR, non può ritenersi che Abbritti Paolo abbia assunto la qualità di parte nel processo a quo, l’intervento da questi spiegato nel giudizio davanti a questa Corte va dichiarato inammissibile (sentenza n. 220 del 2007 e ordinanza n. 393 del 2008).
9.1.— Ancora in via preliminare, con riferimento ai giudizi iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione avente ad oggetto l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010.
In particolare, il TAR per l’Abruzzo, dopo aver premesso che i ricorsi proposti riguardano le decurtazioni conseguenti all’applicazione dell’art. 9, comma 22, conclude affermando che le medesime censure enucleate con riguardo a tale ultima norma varrebbero, «a maggior ragione», per il prelievo disposto dal comma 2, in quanto incidente direttamente sul trattamento stipendiale dei ricorrenti.
Analogamente, il TAR per l’Umbria (reg. ord. n. 53 del 2012) premette che i ricorrenti si dolgono del mancato adeguamento automatico delle proprie retribuzioni, nonché della decurtazione subita dall’indennità giudiziaria ad essi spettante. Prosegue, altresì, affermando come risulti rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 e, tuttavia, procede in conclusione ad impugnare anche la norma contenuta nel citato comma 2, relativa alla riduzione del trattamento economico complessivo superiore a 90.000 euro ed a 150.000 euro.
In entrambi i casi, poiché tale profilo del trattamento economico non aveva fatto parte dei motivi di ricorso delle parti del giudizio, la questione di legittimità costituzionale risulta manifestamente inammissibile, in quanto sollevata in relazione ad una norma di cui il giudice rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo (ex pluribus ordinanze n. 256 del 2009 e n. 265 del 2008).
10.— Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento alle questioni sollevate dalle ordinanze dei TAR per l’Umbria e per la Calabria, aventi ad oggetto l’art. 12, comma 7, inerenti alle modalità di corresponsione dell’indennità di buonuscita.
In particolare, secondo i giudici a quibus, la questione sarebbe rilevante poiché detta norma dovrà essere sicuramente applicata all’atto di cessazione dal servizio dei ricorrenti, comunque ed in qualsiasi tempo avvenga. Tuttavia, nessuno dei rimettenti riferisce di essere investito di una domanda da parte di un magistrato in quiescenza, per qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, che abbia subito gli effetti della norma. L’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende evidente come i rimettenti non debbano fare applicazione della norma impugnata. Inoltre, neppure risulta individuato alcun immediato pregiudizio subito dai magistrati in servizio, diverso dalla rateizzazione, che essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per anzianità di servizio, ovvero per dimissioni.
Anche tale questione va, pertanto, dichiarata manifestamente inammissibile.
11.— Nel merito, le questioni relative all’art. 9, comma 22, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevate con riferimento alla violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sono fondate.
11.1.— La norma stabilisce che, per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981, «non [siano] erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012»; e che «per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 [sia] pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 [venga] determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014». Infine, il medesimo comma dispone che nei confronti del predetto personale non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 21, secondo e terzo periodo.
11.2.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati ordinari, nonché dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della giustizia militare e degli Avvocati e Procuratori dello Stato è stabilito dagli artt. 11 e 12 della legge 2 aprile 1979, n. 97 (Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato), come sostituiti dall’art. 2 della citata legge n. 27 del 1981. Tali norme dispongono che gli stipendi dei magistrati sono adeguati automaticamente ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi delle voci retributive, esclusa l’indennità integrativa speciale, ottenuti dagli altri pubblici dipendenti (appartenenti alle amministrazioni statali, alle aziende autonome dello Stato, università, regioni, provincie e comuni, ospedali ed enti di previdenza). La percentuale viene calcolata dall’Istituto centrale di statistica rapportando il complesso del trattamento economico medio per unità corrisposto nell’ultimo anno del triennio di riferimento al trattamento economico medio dell’ultimo anno del triennio precedente, ed ha effetto dal 1° gennaio successivo a quello di riferimento. La determinazione di tale percentuale è poi disposta entro il 30 aprile del primo anno di ogni triennio con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro della giustizia e con quello dell’economia e delle finanze. Sulla base di questo provvedimento, gli stipendi al 1° gennaio del secondo e del terzo anno di ogni triennio sono aumentati, a titolo di acconto sull’adeguamento triennale, per ciascun anno e con riferimento sempre allo stipendio in vigore al 1° gennaio del primo anno, per il 30 per cento della variazione percentuale verificatasi fra le retribuzioni dei dipendenti pubblici nel triennio precedente, con conseguente conguaglio a decorrere dal 1° gennaio del triennio successivo.
11.3.— Posta questa premessa, va osservato che, nonostante l’imprecisione della normativa denunciata, la quale considera come anno di acconto il 2012, correttamente i rimettenti hanno ritenuto che tale disciplina non possa ingenerare dubbi in relazione alle modalità della sua applicazione, trattandosi comunque di un blocco della corresponsione di somme, indipendentemente dal fatto che esse siano dovute a titolo di acconto o di conguaglio.
11.4.— Nel merito, va ricordato che questa Corte, nel decidere questioni concernenti norme aventi ad oggetto la retribuzione e la disciplina dell’adeguamento retributivo dei magistrati, anche e soprattutto in riferimento a misure economico-finanziarie che ne hanno ritardato o comunque disciplinato gli effetti nel tempo, ha affermato, in generale, che l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante «l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico» (sentenza n. 1 del 1978).
La sentenza n. 238 del 1990 ha delineato la funzione dell’adeguamento triennale e dei meccanismi rivalutativi della retribuzione dei magistrati, affermando che, «In attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il legislatore ha col citato art. 2 predisposto un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati che, in quanto configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo».
Successivamente, la sentenza n. 42 del 1993 ha ribadito che il sistema di adeguamento automatico è caratterizzato dalla garanzia di un aumento periodico delle retribuzioni, che viene assicurato per legge, sulla base di un meccanismo che costituisce un «elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni» la cui ratio consiste nella «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri». La Corte, in quella occasione, ha altresì ribadito che il meccanismo di cui all’art. 2 «in quanto configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo». Lo stesso principio è stato ancora di recente enunciato in relazione alla disciplina dell’indennità di funzione (ordinanze n. 137 e n. 346 del 2008).
Secondo una univoca giurisprudenza costituzionale, pertanto, sussiste un collegamento fra tale disciplina ed i precetti costituzionali summenzionati, nel senso della imprescindibilità dell’esistenza di un meccanismo, sia pure non a contenuto costituzionalmente imposto, che svincoli la progressione stipendiale da una contrattazione e, comunque, in modo da evitare il mero arbitrio di un potere sull’altro. Va aggiunto, poi, che siffatti principi sono confortati dai lavori preparatori della Costituente, dai quali traspare che l’omessa indicazione specifica dell’indipendenza economica delle magistrature non ha significato l’esclusione di tale aspetto dal complesso di condizioni necessario per realizzare l’autonomia ed indipendenza delle stesse (resoconti dei lavori dell’Assemblea 6 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 20 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 26 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 7 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 13 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 14 novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 21 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 11 novembre 1947, nella seduta pomeridiana).
La specificità di tale disciplina costituisce, peraltro, anche conseguenza del fatto che la magistratura, nell’organizzazione dello Stato costituzionale, esercita una funzione ad essa affidata direttamente dalla Costituzione. Per questa ragione, attraverso un meccanismo di adeguamento automatico del trattamento economico dei magistrati, la legge, sulla base dei principi costituzionali, ha messo al riparo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di interferenza, che potesse, sia pure potenzialmente, menomare tale funzione, attraverso una dialettica contrattualistica. In tale assetto costituzionale, pertanto, il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo ed indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto.
11.5.— In occasione di pregresse manovre economiche, recanti deroghe temporanee a tali meccanismi rivalutativi di adeguamento, disposte, in particolare, in occasione della grave congiuntura economica del 1992, questa Corte ha già indicato i limiti entro i quali un tale intervento può ritenersi rispettoso dei principi sopra sintetizzati.
In particolare, l’ordinanza n. 299 del 1999, premesso che il decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, era stato emanato in un momento molto delicato per la vita economico-finanziaria del Paese, caratterizzato dalla necessità di recuperare l’equilibrio di bilancio, ha affermato che «per esigenze così stringenti il legislatore ha imposto a tutti sacrifici anche onerosi (sentenza n. 245 del 1997) e che norme di tale natura possono ritenersi non lesive del principio di cui all’art. 3 della Costituzione (sotto il duplice aspetto della non contrarietà sia al principio di uguaglianza sostanziale, sia a quello della non irragionevolezza), a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso». In particolare, la pronuncia ha precisato che tale intervento, «pur collocandosi in un ambito estremo, non lede tuttavia alcuno dei precetti indicati, in quanto il sacrificio imposto ai pubblici dipendenti dal comma 3 del citato art. 7 è stato limitato a un anno; così come limitato nel tempo è stato il divieto di stipulazione di nuovi accordi economici collettivi, previsto dal comma 1 dell’art. 7 e che, quindi, tale norma ha imposto un sacrificio non irragionevolmente esteso nel tempo (sentenza n. 99 del 1995), né irrazionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini».
Sempre con riferimento al decreto-legge n. 384 del 1992, è stato altresì sottolineato che il cosiddetto “blocco” dallo stesso stabilito, di cui era evidente il carattere provvedimentale del tutto eccezionale, esauriva i suoi effetti nell’anno considerato, limitandosi a impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio del bilancio (sentenza n. 245 del 1997), riconosciute meritevoli di tutela a condizione che le disposizioni adottate non risultassero arbitrarie (sentenze n. 417 del 1996, n. 99 del 1995, n. 6 del 1994).
11.6.— Il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni dei magistrati può, dunque, a certe condizioni essere sottoposto per legge a limitazioni, in particolare quando gli interventi che incidono su di esso siano collocati in un quadro di analoghi sacrifici imposti sia al pubblico impiego (attraverso il blocco della contrattazione – sulla base della quale l’ISTAT calcola l’aumento medio da applicare), sia a tutti i cittadini, attraverso correlative misure, anche di carattere fiscale.
Allorquando la gravità della situazione economica e la previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio.
Nel caso di specie, i ricordati limiti tracciati dalla giurisprudenza di questa Corte risultano irragionevolmente oltrepassati.
11.7.— In primo luogo, la disciplina censurata ha posto nel nulla la determinazione già disposta con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 giugno 2009, che aveva fissato l’incremento con decorrenza dal 1° gennaio 2009, incidendo quindi sul conguaglio del 2012. Pertanto, assume rilievo decisivo la constatazione che, in relazione a questo aspetto, l’intervento per il solo personale della magistratura eccede l’obiettivo di realizzare un “raffreddamento” della dinamica retributiva ed ha, invece, comportato una vera e propria irragionevole riduzione di quanto già riconosciuto sulla base delle norme che disciplinano l’adeguamento.
In secondo luogo, oltre ad essere disposto non solo un raffreddamento della dinamica retributiva, bensì una riduzione di quanto già spettante per il 2012, è stato impedito qualsiasi recupero di tale progressione, con l’imposizione di un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; escludendo pertanto il triennio 2011-2013 e con un effetto irreversibile.
La fissazione di un “tetto” per l’acconto dell’adeguamento relativo all’anno 2014 e di un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015, scollegato peraltro dalle esigenze di bilancio che governano il provvedimento, costituisce, infatti, un ulteriore illegittimo superamento dei limiti temporali dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore per il triennio 2011-2013. Tale disciplina, in quanto suscettibile di determinare effetti permanenti del blocco dell’adeguamento soltanto per le categorie interessate dal medesimo blocco, determina per ciò stesso la violazione dell’art. 3 Cost., nonché dei ricordati principi costituzionali posti a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. La disciplina in esame realizza, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento fra la categoria dei magistrati e quella del pubblico impiego contrattualizzato, che, diversamente dal primo, vede limitata la possibilità di contrattazione soltanto per un triennio.
Inoltre, l’intervento normativo in questione non solo copre potenzialmente un arco di tempo superiore alle individuate esigenze di bilancio, ma soltanto apparentemente è limitato nel tempo, se si considerano le analoghe misure pregresse che hanno interessato i meccanismi di adeguamento, in particolare, con riferimento all’art. 1, comma 576, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), che riduceva la corresponsione dell’adeguamento maturato.
In tale contesto, il fatto che i magistrati, in quanto esclusi dalla possibilità di interloquire in sede contrattuale, si giovino degli aumenti contrattuali soltanto con un triennio di ritardo, salva la previsione di acconti, non può consentire di arrecare esclusivamente ad essi un ulteriore pregiudizio, consistente non soltanto nella mancata progressione relativa al triennio precedente, ma anche conseguente all’impossibilità di giovarsi di quella che la contrattazione nel pubblico impiego potrebbe raggiungere oltre il triennio di blocco. In questo senso, l’intervento normativo censurato, oltre a superare i limiti costituzionali indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, che collocava in ambito estremo una misura incidente su un solo anno, travalica l’effetto finanziario voluto, trasformando un meccanismo di guarentigia in motivo di irragionevole discriminazione.
In definitiva, la disciplina censurata eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive, in danno di una sola categoria di pubblici dipendenti.
11.8.— Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981, non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015, l’acconto spettante per l’anno 2014 è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21.
12.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, nella parte in cui stabilisce la decurtazione dell’indennità prevista dall’art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è fondata.
12.1.— In limine, va osservato che la giurisprudenza di questa Corte ha dapprima definito tale indennità come voce collegata al “servizio istituzionale svolto dai magistrati” (ordinanza n. 57 del 1990).
Successivamente, la sentenza n. 238 del 1990 ha ulteriormente precisato che la “speciale” indennità di cui si tratta, correlandosi al peculiare status dei magistrati, costituisce una componente del loro normale trattamento economico, soggetto ad una regolamentazione autonoma. Tale componente, tuttavia, secondo la Corte, è necessariamente correlata al concreto esercizio delle funzioni, in quanto espressamente collegata ai particolari “oneri” che i magistrati “incontrano nello svolgimento della loro attività”, la quale comporta peraltro un impegno senza prestabiliti limiti temporali. La corresponsione della stessa è, dunque, strettamente connessa all’effettiva prestazione del servizio (sentenza n. 407 del 1996 e ordinanza n. 106 del 1997).
Con riferimento alla erogazione di tale indennità nel caso di astensione obbligatoria dal lavoro dei magistrati, la Corte ha ribadito la peculiarità di tale voce stipendiale, sia dal punto di vista del regime di corresponsione e di rivalutazione, sia dal punto di vista della specialità della sua ispirazione al precetto costituzionale di autonomia ed indipendenza (ordinanze n. 346 del 2008, n. 137 del 2008, n. 290 del 2006).
Ai fini della decisione occorre, dunque, tenere conto del fatto che tale indennità, sebbene sia stata nel tempo considerata anche come una componente normale della retribuzione, non ha perso la sua natura particolare, conseguente all’essere la stessa diretta a compensare un complesso di oneri inscindibilmente connessi alle modalità di esercizio delle funzioni svolte dai magistrati.
12.2.— Ciò posto, occorre preliminarmente stabilire la natura giuridica del prelievo stabilito dalla norma impugnata, la quale statuisce che l’indennità «spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, è ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013».
12.3.— Questa Corte non ritiene che la disposizione in esame preveda una mera progressiva riduzione dell’indennità.
In primo luogo, la formula utilizzata dal legislatore non lascia adito a dubbi sul fatto che l’indennità continui ad assolvere la sua originaria funzione di compensare i particolari oneri connessi al servizio istituzionale svolto dai magistrati. La “riduzione”, infatti, non opera ai fini previdenziali e, pertanto, integra non una decurtazione retributiva, ma un prelievo triennale straordinario per aliquote crescenti.
In secondo luogo, confinare la misura finanziaria in esame nell’ambito retributivo significherebbe incorrere in una contraddizione, dato che dovrebbero ritenersi corrispondentemente ridotti, nel periodo considerato, quei particolari oneri che essa è diretta a compensare, riduzione che, all’evidenza, è esclusa. Tale opzione ermeneutica, inoltre, condurrebbe ad una conclusione altrettanto irragionevole, poiché essa attribuirebbe al legislatore l’intento di ridurre una componente connessa ad una soluzione organizzativa in cui l’amministrazione pubblica, piuttosto che optare per un diretto impiego di moduli organizzativi e strumentali che tengano indenni economicamente i magistrati dai predetti oneri, ha ritenuto più vantaggioso affidarne a questi ultimi una porzione, previo specifico ristoro economico, sottratto, dunque, ad imposizioni tributarie diverse da quelle che già colpiscono, a mezzo ritenuta, tali somme.
Per altro verso, poi, trattandosi di una componente del trattamento economico collegata ai principi di autonomia ed indipendenza della magistratura, la sua riduzione, in sé, in aggiunta alla mancata rivalutazione, determinerebbe un ulteriore vulnus della Costituzione.
Vero è che, esclusa la configurabilità di un prelievo forzoso sine causa, deve ritenersi che la decurtazione oggetto della questione di costituzionalità, nonostante il riferimento testuale ad una “riduzione” e ad un “contenimento delle spese”, rivesta carattere tributario, trattandosi all’evidenza di una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinata a sovvenire le pubbliche spese. La ratio della disposizione censurata, in altri termini, è quella di reperire risorse per l’erario.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un rapporto di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico statale “non contrattualizzato”); le risorse connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione sono destinate a sovvenire pubbliche spese.
Questi tre richiamati requisiti, congiuntamente considerati, ricorrono nella misura in esame, considerato che l’indennità giudiziaria partecipa di una natura retributiva e la sua decurtazione, ai fini del «contenimento delle spese in materia di impiego pubblico» (come reca la rubrica dell’art. 9 censurato), costituisce il dichiarato e prevalente intento del legislatore. Inoltre, la misura denunciata neppure ha modificato l’istituto dell’indennità giudiziaria, perché alla temporanea diminuzione di alcuni punti percentuali della entità di tale indennità non corrisponde, come sopra precisato, né la correlativa riduzione degli obblighi e prestazioni previdenziali, né la riduzione dei carichi lavorativi che l’indennità è diretta a compensare. Infine, l’assenza di una espressa indicazione della destinazione delle maggiori risorse conseguite dallo Stato non esclude che siano destinate a sovvenire pubbliche spese, e, in particolare, a stabilizzare la finanza pubblica, trattandosi di un usuale comportamento del legislatore quello di non prevedere, per i proventi delle imposte, una destinazione diversa dal generico “concorso alle pubbliche spese” desumibile dall’art. 53 Cost. Nella specie, tale destinazione si desume anche dal titolo stesso del decreto-legge: «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», in coerenza con le finalità generali delle imposte.
12.4.— Ritenuta la natura tributaria della misura in esame, questa non è immune dalle censure di illegittimità costituzionale prospettate da tutti i rimettenti con riferimento agli articoli 3 e 53 Cost.
Il tributo che interessa incide su una particolare voce di reddito di lavoro, che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro; e introduce, quindi, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto ai danni della particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia dell’indennità giudiziaria. Con la sua applicazione, infatti, viene colpita piú gravemente, a parità di capacità contributiva per redditi di lavoro, esclusivamente detta categoria. Ove, poi, si potesse prescindere da tale pur decisiva considerazione, la previsione di siffatto tributo speciale comporterebbe comunque una ingiustificata disparità di trattamento con riguardo alle indennità percepite dagli altri dipendenti statali, non assoggettate, negli stessi periodi d’imposta, ad alcun prelievo tributario aggiuntivo. È opportuno sottolineare che l’indicata disparità di trattamento è tanto piú ingiustificata in quanto proprio la sopra ricordata funzione dell’indennità giudiziaria di compenso all’attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell’apparato della giustizia, esige il piú scrupoloso rispetto da parte del legislatore dei canoni della ragionevolezza e dell’uguaglianza.
12.5.— Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013.
Restano assorbite le ulteriori censure.
13.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è del pari fondata.
13.1.— La disposizione, nella parte censurata, prevede che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro».
13.2.— Anche la decisione su tale questione richiede, preliminarmente, di accertare se la norma censurata preveda una mera riduzione del trattamento economico, incidente solo sul contenuto del rapporto lavorativo dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (come afferma l’Avvocatura generale dello Stato), oppure introduca un vero e proprio prelievo tributario (come sostengono i TAR rimettenti).
13.2.1.— Come già osservato in precedenza, questa Corte ha piú volte affermato che, indipendentemente dal nomen iuris attribuitole dal legislatore, al fine di valutare se una decurtazione patrimoniale definitiva integri un tributo, occorre interpretare la disciplina sostanziale che la prevede alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria di tributo: cioè la doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). Un tributo consiste, quindi, in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964).
13.2.2.— Tanto premesso, va constatato che la disposizione impugnata (introdotta dal medesimo incipit e sorretta dalla medesima ratio del contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo» e convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, la cui natura tributaria è indubitabile) partecipa di tutti i sopra indicati elementi caratteristici del prelievo tributario.
In primo luogo, è stata stabilita in via autoritativa una decurtazione patrimoniale («riduzione» del trattamento economico), senza che rilevi la volontà – in ordine all’an, al quantum, al quando ed al quomodo – di chi la subisce.
In secondo luogo, la norma stabilisce che le risorse rese disponibili dalla «riduzione» del trattamento economico sono acquisite al bilancio dello Stato, senza operare alcuna distinzione tra le diverse categorie di dipendenti pubblici e, in particolare, tra i dipendenti pubblici statali e non statali. Ne deriva che la misura finanziaria in esame non può integrare una nuova disciplina del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e dipendente, perché lo Stato non avrebbe titolo per modificare con la disposizione in esame i trattamenti economici di rapporti lavorativi di cui non è parte. In altri termini, gli enti pubblici non statali (territoriali o no), nella loro qualità di datori di lavoro, non traggono alcun beneficio economico dalla predetta «riduzione», ma agiscono come «sostituti d’imposta» per le imposte sui redditi, trattenendo gli importi indicati dalla norma denunciata (quali «ritenute alla fonte») e provvedendo al loro «versamento diretto» all’erario per conto dei “sostituiti” propri dipendenti (ai sensi degli artt. 1, lettera b, e 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito»). Inoltre, la permanenza degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» (terzo periodo dell’impugnato comma 2: «La riduzione […] non opera ai fini previdenziali») costituisce ulteriore e definitiva dimostrazione che la temporanea decurtazione del trattamento economico integra, in realtà, un prelievo a carico del dipendente pubblico e non una modificazione (peraltro unilaterale) del contenuto del rapporto di lavoro, alla quale avrebbe dovuto necessariamente conseguire, secondo ragionevolezza, una corrispondente modificazione di tali obblighi. Né a conclusioni diverse può giungersi per i soli dipendenti statali cosiddetti “non contrattualizzati”, per i quali una modifica del trattamento economico avrebbe necessariamente richiesto un intervento legislativo. È evidente, infatti, che l’unitarietà della disciplina posta dalla norma censurata (che, come già osservato, non distingue tra diverse categorie di dipendenti pubblici ed ha riguardo al «trattamento economico complessivo», comprensivo anche di voci stipendiali ed indennitarie corrisposte allo stesso soggetto da diverse amministrazioni pubbliche) e la permanenza in ogni caso degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» impediscono di ritenere che per i soli dipendenti statali non contrattualizzati la norma impugnata abbia introdotto una nuova, temporanea e parziale disciplina del rapporto lavorativo. L’unica particolarità per i dipendenti statali (contrattualizzati o no) consiste nel fatto (non rilevante ai fini del presente giudizio) che il prelievo è effettuato dallo Stato mediante «ritenuta diretta», ai sensi degli artt. 1, lettera a), e 2 del d.P.R. n. 602 del 1973.
In terzo luogo, sussiste il collegamento del prelievo con la pubblica spesa, in quanto lo stesso legislatore afferma che la norma impugnata risponde alla dichiarata ratio di destinare le risorse rese disponibili dalla decurtazione patrimoniale del trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici al bilancio dello Stato per raggiungere, nei tempi previsti, gli obiettivi concordati in sede europea, cioè il pareggio di bilancio e, in particolare, la diminuzione del debito pubblico.
In quarto luogo, il presupposto economicamente rilevante in relazione al quale è previsto il prelievo è, con tutta evidenza, il complessivo reddito di lavoro conseguito dal dipendente pubblico nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013. Le stesse modalità applicative della misura seguite dal Ministero dell’economia e delle finanze, includendo nel montante lordo liquidato nel corso dell’anno, anche gli arretrati sia relativi all’anno corrente che per anni precedenti, sia delle competenze fisse che di quelle accessorie, ricollega la misura, più che al trattamento economico del dipendente, al reddito da lavoro pubblico, che concorre a formare il calcolo del risultato impositivo.
Occorre, perciò, concludere che la normativa, nonostante la formulazione letterale della norma in esame, non può considerarsi una riduzione delle retribuzioni, come sostiene l’Avvocatura dello Stato, allorchè, nella memoria difensiva, individua la necessità dell’intervento nel suggerimento dei presidenti (uscente e nominato) della BCE (banca centrale per la moneta unica europea) contenuto in una lettera al Governo italiano.
Si tratta, invece, di una imposta speciale prevista nei confronti dei soli pubblici dipendenti.
13.3.— Ritenuta la natura tributaria del prelievo stabilito dalla norma censurata, occorre valutarne la conformità con i parametri evocati.
13.3.1.— In proposito va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000). Pertanto, il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111 del 1997).
Nella specie, pure considerando al giusto la discrezionalità legislativa in materia, la norma impugnata si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. L’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili.
Da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. D’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura. Nel caso in esame, dunque, l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo. L’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale.
In conclusione, il tributo imposto determina un irragionevole effetto discriminatorio.
13.4.— Di conseguenza, va pronunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro.
14.— Anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 36 Cost. è fondata.
La premessa interpretativa del TAR per l’Umbria è, innanzitutto, corretta in punto di ricostruzione del quadro normativo, poiché la mancata espressa esclusione del permanere della trattenuta a carico del lavoratore non potrebbe indurre a far uso dell’argomento a silentio sia pure per perseguire un’interpretazione costituzionalmente orientata. Il perdurare del prelievo di cui si discute, infatti, oltre a derivare dall’astratta compatibilità fra il nuovo regime e la disciplina contenuta nel d.P.R. n. 1032 del 1973, è avvalorato dal fatto che il citato art. 12, comma 10, non contiene affatto una disciplina organica sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, in grado di sostituirsi, in senso novativo, al d.P.R. n. 1032 del 1973, come del resto ritenuto dall’Amministrazione in sede applicativa.
Ciò posto, va osservato che fino al 31 dicembre 2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80% della retribuzione. La differente normativa pregressa prevedeva dunque un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente di cui si discute.
Nel nuovo assetto dell’istituto determinato dalla norma impugnata, invece, la percentuale di accantonamento opera sull’intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del TFR maturata nel tempo.
La disposizione censurata, a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della Costituzione.
14.1.— Va, quindi, pronunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 1032 del 1973.


Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato, nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, da Abbritti Paolo;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura) non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 è pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013;
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro;
5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato);
6) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012, dai TAR per l’Abruzzo e per l’Umbria;
7) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord. nn. 54 e 74 del 2012, dai TAR per l’Umbria e per la Calabria.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2012.