giovedì 25 luglio 2013

Camera: Interrogazione in Commissione per chiedere l'intervento del Governo sulle Poste Italiane



Atto Camera

Interrogazione a risposta in commissione 5-00697
presentato da
CATALANO Ivan
testo di
Lunedì 22 luglio 2013, seduta n. 57
  CATALANO. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il processo di liberalizzazione nel settore dellepublic Utilities, avviato dalla Commissione europea agli inizi degli anni Novanta, si è concretizzato, per quanto riguarda il settore postale, con l'introduzione della direttiva 97/67/CE;
   tra i principali elementi della citata direttiva vi è l'obbligo a carico di ciascuno Stato membro di garantire il mantenimento di un servizio postale universale su tutto il proprio territorio (articoli 3 e 4);
   il decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, ha recepito la direttiva 97/67/CE, per lo sviluppo e il miglioramento del mercato interno dei servizi postali comunitari e della qualità del servizio, affidando alle Poste il servizio postale universale (articolo 23);
   il finanziamento avviene in parte attraverso trasferimenti posti a carico dello Stato, secondo quanto disposto dall'articolo 3 del decreto, come da ultimo modificato dall'articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 2011, n. 58;
   gli obblighi di servizio universale sono ribaditi, da ultimo, nel contratto di programma relativo al triennio 2009-2011;
   parallelamente, è avvenuta la trasformazione delle Poste da «Amministrazione dello Stato» a «ente pubblico economico», e successivamente a «società per azioni», che ha prodotto la graduale divisione tra il settore del servizio universale e quello degli altri servizi tradizionalmente erogati;
   negli ultimi anni, i piani industriali di Poste s.p.a. hanno privilegiato largamente i servizi a maggior valore aggiunto apparente, a scapito del servizio universale;
   infatti, i dati relativi ai servizi erogati nell'ambito del servizio universale rivelano una diminuzione di 30.000 unità nel settore impegnato nella lavorazione di pacchi e corrispondenza negli ultimi 12 anni, e di circa 14.000 negli ultimi anni;
   inoltre, il piano di riorganizzazione aziendale, presentato da Poste Italiane s.p.a. il 17 aprile 2012, ed inviato all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, prevede la chiusura di 1.156 sportelli presenti sul territorio nazionale, la razionalizzazione di 638 uffici con una riduzione dei giorni e degli orari di apertura e la soppressione di 1.410 zone di recapito;
   tale piano, secondo le organizzazioni sindacali, come si apprende dalla stampa, ha determinato, nel 2012, l'ulteriore riduzione di 1.765 lavoratori nelle regioni Piemonte, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Basilicata, mentre nel 2013, con l'estensione del provvedimento a tutto il territorio nazionale, la riduzione potrebbe essere dell'ordine di 10-12.000 unità con la chiusura di circa 2.000 uffici postali e una riduzione del 50 per cento degli appalti;
   la riorganizzazione è stata decisa nonostante i risultati di bilancio 2011 siano positivi, 846 milioni di utili, migliorati nel 2012 raggiungendo i 1032 milioni di utile netto, che collocano il gruppo ai primi posti per redditività rispetto ai principali operatori internazionali;
   i tagli non garantiranno più il servizio universale nei termini di uniformità di servizio su tutto il territorio, tariffe contenute, soddisfacente qualità del recapito nei termini stabiliti dal contratto di programma;
   per contratto, infatti, la società è tenuta ad assicurare, sino all'anno 2016 (e con possibilità di proroga fino al 2026), per cinque giorni lavorativi a settimana, la fornitura su tutto il territorio nazionale delle prestazioni comprese nel servizio universale;
   le politiche di spending review poste in essere da Poste s.p.a. non rispettano gli obblighi del servizio universale e rispondono ad una logica strettamente economica, estranea all'operato di un'azienda che eroga un servizio pubblico;
   il recapito a giorni alterni considerato da Poste s.p.a., abolirà il servizio quotidiano per i comuni più piccoli, creando una difformità tra zone ad alto e basso indice di popolazione;
   negli ultimi anni, Poste s.p.a. ha incentivato l'esodo dei lavoratori prossimi al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento;
   Poste s.p.a. deve affrontare il problema dei lavoratori cosiddetti esodati, ovvero dipendenti che hanno accettato di lasciare il posto per essere accompagnati alla pensione, e che si trovano oggi in difficoltà a causa dell'innalzamento dell'età pensionabile introdotto dalla riforma pensionistica realizzata dal Governo Monti (articolo 24 del decreto-legge 201 del 2011, cosiddetta riforma Fornero) la quale, a decorrere dal 2012, ha sensibilmente incrementato i requisiti anagrafici e contributivi per l'accesso al pensionamento;
   le problematiche connesse all'attuazione della riforma hanno indotto Governo e Parlamento a rivedere la platea dei soggetti ammessi al pensionamento secondo la normativa previgente, estendendola a più riprese;
   la circolare n. 76 dell'INPS riepiloga le disposizioni normative relative alle cosiddette prima seconda e terza operazione di salvaguardia: prima salvaguardia (cosiddetta salvaguardia 65.000), articolo 24, commi 14 e 15, della legge n. 214 del 2011; seconda salvaguardia (cosiddetta salvaguardia 55.000), articolo 22, comma 1, della legge n. 135 del 2012; Terza Salvaguardia (cosiddetta salvaguardia 10.130), articolo 1, commi 231 e successivi, della legge n. 228 del 2012;
   per effetto dei ripetuti interventi del legislatore, è stata garantita copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014);
   attualmente, tuttavia, la molteplicità dei casi possibili, la necessità di certificazioni da parte dell'INPS, e i tetti prefissati dagli interventi di salvaguardia, non consentono di ridurre il livello di attenzione per i lavoratori esposti;
   nello specifico, le aziende di fatto controllate dallo Stato, titolari di contratto di programma, i cui amministratori e manager vengono nominati dallo Stato, non hanno dato a giudizio dell'interrogante alcun segnale di condivisione e solidarietà sul problema;
   a detta dell'interrogante, il loro unico obiettivo strategico sembra essere quello di scaricare sulla fiscalità generale tutte le presunte inefficienze al fine di presentarsi al mercato al meglio. Propongono, infatti, piani industriali centrati sempre sul drastico abbattimento del personale, l'unico asset non gradito, ripartendo gli effetti negativi, da una parte sullo Stato, in termini di costo e dall'altro sui cittadini in termini di qualità del servizio;
   è significativo, come si apprende dalla stampa, l'atteggiamento di chiusura del presidente di Poste s.p.a., Giovanni Ialongo, per il quale il rientro in azienda dei lavoratori è impossibile, perché si tratta di personale uscito, che è stato incentivato con l'assunzione di un figlio o con un incentivo economico;
   le difficili condizioni dei lavoratori succitati potrebbero avere risvolti drammatici: proprio sul sito di Poste s.p.a. viene evidenziata la tragica sequela di suicidi che hanno coinvolto i postini francesi in seguito alla ristrutturazione molto pesante operata nel settore della distribuzione da parte dell'omologa azienda francese;
   come si legge sulla relazione al bilancio nel suo sito internet, Poste s.p.a. si è impegnata, per il 2013, a trasformare il rapporto di lavoro, da tempo parziale a tempo pieno, di un numero di risorse paria 400 nel 2013 e a 300 nel 2014;
   nonostante l'effetto combinato dello sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e della crisi economica sia potenzialmente drammatico per il settore, il gruppo, nel suo complesso, realizza ricavi per oltre 24 miliardi di euro con utile netto per oltre 1 miliardo con più di 144.000 dipendenti. I dipendenti potenzialmente esposti rappresenterebbero meno dell'1 per cento della forza lavoro;
   il gruppo ha previsto a bilancio accantonamenti cospicui a fronte di rischi per contenzioso in atto con l'Agenzia delle entrate e fondi per vertenze con il personale a vario titolo (inizialmente oltre 45.000);
   il gruppo Telecom, con una dichiarazione congiunta con le rappresentanze sindacali, si è detto disponibile al reintegro dei lavoratori esodati, eventualmente esclusi, fino al raggiungimento dei requisiti pensionistici;
   in attesa di soluzioni certe e definitive da parte del legislatore, Poste s.p.a., a detta dell'interrogante, dovrebbe farsi carico dei propri lavoratori con senso di responsabilità e di appartenenza –:
   se non ritenga opportuno richiamare ilmanagement di Poste s.p.a. ad una politica più rispettosa delle potenzialità delle proprie risorse umane, innovando i processi e migliorando i servizi, senza ricorrere alla ricetta elementare della riduzione del numero degli occupati per effetto dello sviluppo tecnologico, posto che un'azienda socialmente sostenibile è in grado di utilizzare e valorizzare lo sviluppo tecnologico per liberare risorse preziose da utilizzare diversamente per altri prodotti e/o servizi esistenti o da creare;
   se non ritenga opportuno di assumere iniziative per una revisione dell'attuale piano industriale, che presenti le alternative praticabili in termini di livelli occupazionali, con le relative conseguenze economiche;
   se non ritenga opportuno assumere iniziative affinché Poste si faccia carico del problema dei lavoratori esodati istituendo, all'interno di PosteItaliane s.p.a., un fondo di solidarietà a cui attingere per il versamento degli importi pattuiti con i lavoratori, anticipandoli, se del caso, per assicurare la fluidità dei pagamenti necessaria per la vita quotidiana, in attesa della definizione INPS;
   se non ritenga di assumere iniziative affinché Poste s.p.a. modifichi il meccanismo della premialità manageriale, introducendo un obiettivo specifico per la conservazione e la riallocazione del personale esistente e dedicando parte dei premi a sostegno degli esodati. (5-00697)

La Corte Costituzionale, con la sentenza nr. 231 depositata lo scorso 23 luglio 2013, da ragione alla Fiom e, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori ( L. 300/70), nella parte in cui “non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.



SENTENZA N. 231
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promossi dal Tribunale ordinario di Modena con ordinanza del 4 giugno 2012, dal Tribunale ordinario di Vercelli con ordinanza del 25 settembre 2012 e dal Tribunale ordinario di Torino con ordinanza del 12 dicembre 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 202 e 287 del registro ordinanze 2012 e al n. 46 del registro ordinanze 2013, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 40 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2012 e n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione della FIOM - Federazione Impiegati Operai Metalmeccanici - Federazioni Provinciali di Modena, di Vercelli e Valsesia e di Torino, della Case New Holland Italia s.p.a., della Maserati s.p.a., della Ferrari s.p.a., della Fiat Group Automobiles s.p.a., e della Abarth & C. s.p.a. ed altri, nonché gli atti di intervento della CGIL - Confederazione Generale Italiana del Lavoro, Filcams-CGIL Federazione Italiana Lavoratori Commercio, Alberghi, Mense e Servizi e Filcams-CGIL di Milano e Provincia, della FNSI - Federazione nazionale della stampa italiana, della Unione Industriale della Provincia di Torino e del Presidente del Consiglio dei ministri (fuori termine nel giudizio iscritto al r.o. n. 287 del 2012);
udito nell’udienza pubblica del 2 luglio 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Franco Scarpelli e Amos Andreoni per la CGIL -Confederazione Generale Italiana del Lavoro, per la Filcams-Cgil - Federazione Italiana Lavoratori Commercio, Alberghi, Mense e Servizi, e per Filcams-CGIL di Milano e Provincia, Bruno Del Vecchio per la FNSI - Federazione nazionale della stampa italiana, Paolo Tosi per l’Unione Industriale della Provincia di Torino, Vittorio Angiolini, Piergiovanni Alleva e Franco Focareta per la FIOM - Federazione Impiegati Operai Metalmeccanici - Federazioni Provinciali di Modena, di Vercelli e Valsesia e di Torino, Roberto Nania, Raffaele De Luca Tamajo e Diego Dirutigliano per Case New Holland Italia s.p.a., Maserati s.p.a. e Ferrari s.p.a., per Fiat Group Automobiles s.p.a. e per Abarth & C. Italia s.p.a. ed altri e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.– Nel corso di più giudizi civili riuniti, promossi ai sensi art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), di seguito anche Statuto dei lavoratori, nei confronti di società del Gruppo FIAT (Case New Holland Italia s.p.a., Maserati s.p.a. e Ferrari s.p.a.), su ricorso della FIOM (Federazione impiegati operai metalmeccanici) della Provincia di Modena – alla quale le resistenti avevano disconosciuto il diritto a costituire rappresentanze sindacali aziendali (e, conseguentemente, ad avvalersi delle prerogative di cui al Titolo III del predetto Statuto), in ragione della mancata sottoscrizione del contratto collettivo, applicato nelle rispettive unità produttive, da parte di essa ricorrente, che pure aveva attivamente partecipato alla correlativa negoziazione – l’adito Tribunale ordinario di Modena, dopo aver rilevato in premessa che i diritti in contestazione risultavano effettivamente riservati alle sole organizzazioni “firmatarie” dei contratti in questione, per testuale dettato dell’articolo 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, a suo avviso non suscettibile di interpretazione adeguatrice in senso estensivo, ha ritenuto, per ciò, rilevante e, in riferimento agli artt. 2, 3 e 39 Cost., non manifestamente infondata, ed ha quindi sollevato, con l’ordinanza in epigrafe (r.o. n. 202 del 2012), questione di legittimità costituzionale del predetto articolo 19.
Secondo il rimettente, il criterio selettivo ivi dettato – nella parte, appunto, in cui legittima l’esclusione dal godimento dei diritti in azienda di un sindacato, pur effettivamente rappresentativo, per il solo fatto che non abbia sottoscritto il contratto applicato in quella unità produttiva – si porrebbe, infatti, in contrasto con gli evocati parametri costituzionali:
– per l’irragionevolezza «nell’attuale condizione di rottura dell’unità sindacale» di una soluzione imperniata «sul dato formale della sottoscrizione del contratto applicato e sganciato da qualsiasi raccordo con la misura del consenso dei rappresentati»;
– per la negativa incidenza sulla decisione dell’associazione sindacale in ordine alla sottoscrizione del contratto collettivo, che ne risulta «condizionata non solo dalla finalità di tutela degli interessi dei lavoratori, secondo la funzione regolativa propria della contrattazione collettiva, bensì anche dalla prospettiva di ottenere (firmando) o perdere (non firmando) i diritti del Titolo III»;
– per la irragionevole difformità di trattamento, che ne consegue, «tra associazioni sindacali dotate tutte di pari capacità rappresentativa, e tutte partecipanti nella stessa misura alle trattative volte alla stipula del contratto collettivo, e che tuttavia non godono all’interno dell’azienda delle stesse prerogative a tutela degli interessi dei lavoratori da esse rappresentati solo in ragione del dissenso espresso avverso la stipula di contratti aziendali».
1.1.– Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la FIOM-Federazione provinciale di Modena, sostenendo l’ammissibilità e la fondatezza nel merito della proposta questione, facendo proprie le argomentazioni addotte dal rimettente ed affermando, in particolare, che per rappresentare efficacemente i lavoratori, e proprio per volerne essere rappresentativo, il sindacato non deve solo firmare, ma talora astenersi dal sottoscrivere il contratto collettivo. Storicamente – aggiunge la FIOM – «ormai la contrattazione collettiva ha perso il carattere acquisitivo che ha avuto per molto tempo. Oggi, non solo negli accordi gestionali delle situazioni di crisi, ma anche nei rinnovi nazionali la stessa contrattazione collettiva ha sovente un prevalente contenuto ablativo, e la forza del sindacato si manifesta non tanto nella capacità di acquisire nuovi diritti ad ogni tornata contrattuale, come è avvenuto per tanto tempo, quanto nella capacità di resistere alle sempre più pressanti ed estese richieste di flessibilità avanzate dalle imprese».
1.2.– Si sono costituite anche Case New Holland Italia s.p.a., Maserati s.p.a. e Ferrari s.p.a., eccependo preliminarmente l’inammissibilità della proposta questione, sia sotto il profilo della riproposizione di questione identica a quella già decisa da questa Corte con la sentenza n. 244 del 1996, sia riguardo al profilo della «perplessità» e «indecifrabilità» della motivazione dell’ordinanza di rimessione; ed aggiungendo che, ove si tratti di richiesta demolitoria, la questione in oggetto sarebbe comunque inammissibile per difetto di rilevanza; e che «qualora poi il petitum sia di carattere additivo, l’ordinanza omette di indicare in maniera sufficientemente circostanziata il verso della pretesa addizione, ossia il contenuto normativo che sarebbe necessario aggiungere alla disposizione indubbiata».
Nel merito, le società costituite ne deducono, «in via del tutto subordinata», l’infondatezza, sia in relazione al prospettato vizio di ragionevolezza, sia in relazione al cosidetto cambiamento di scenario sindacale, in quanto «il dato costituzionale e quello giurisprudenziale convergono nel senso che la capacità rappresentativa del sindacato ai fini dell’attivazione della normativa di sostegno non è un fattore esclusivamente aprioristico, bensì una qualità che trova la sua compiuta realizzazione nella vicenda contrattuale. Ciò vuol dire che ai fini dell’utilizzo delle misure di sostegno in azienda non è sufficiente l’astratta testimonianza degli interessi dei lavoratori iscritti, ma anche l’assunzione di una concreta responsabilità contrattuale».
1.3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, eccependo preliminarmente la irrilevanza, e, quindi, la inammissibilità della questione, atteso che l’eventuale declaratoria di illegittimità dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori determinerebbe il venir meno del criterio della sottoscrizione dei contratti quale criterio selettivo per l’accesso ai diritti di cui al Titolo III dello Statuto ma, in assenza di un diverso criterio selettivo, non darebbe titolo all’associazione sindacale ricorrente di godere di quei diritti.
Nel merito, l’Autorità intervenuta ritiene infondata la questione.
Sostiene che «la previsione di particolari requisiti di rappresentatività ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori, contenuta nelle lettere a) e b) del primo comma dell’art. 19, nella sua formulazione originaria, trovava la propria ratio nell’esigenza di selezionare – attraverso puntuali indici normativi – un sindacato che, per il fatto di essere più rappresentativo di un altro, risultava meritevole di una speciale tutela e, conseguentemente, risultava maggiormente titolato a vedersi riconoscere le prerogative di cui allo Statuto dei lavoratori. Come già evidenziato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 492 del 4 dicembre 1995, tale esigenza permane anche dopo il referendum abrogativo e la finalità della norma nella sua nuova formulazione rimane quella di garantire la suddetta selezione da operarsi sulla base dell’unico parametro della sottoscrizione di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Tale parametro consente di valorizzare l’effettività dell’azione sindacale, desumibile dalla partecipazione alla formazione della disciplina contrattuale collettiva quale indicatore di maggiore rappresentatività direttamente conseguibile da ogni organizzazione sindacale in base ai propri atti concreti ed oggettivamente verificabili.».
1.4.– Hanno depositato memoria ad adiuvandum la CGIL, la Filcams-Cgil e le Filcams-Cgil di Milano e Provincia, argomentando la legittimità del proprio intervento e sostenendo la fondatezza dei proposti rilievi di costituzionalità.
1.5.– Con successiva memoria, la Case New Holland Italia s.p.a., la Maserati s.p.a. e la Ferrari s.p.a. hanno eccepito l’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum di CGIL e Filcams, e ribadito, altresì, le eccezioni di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Modena; ulteriormente, infine, argomentandone la ritenuta infondatezza in relazione a ciascuno dei parametri evocati.
1.6.– Anche la FIOM di Modena ha depositato memoria, congiuntamente, per altro, alla FIOM di Vercelli ed a quella di Torino e relativa, quindi, anche ai giudizi di cui alle successive ordinanze dei Tribunale di Vercelli e di Torino.
In detto atto, le tre costituite Federazioni sottolineano, tra l’altro, come l’assetto imposto per la contrattazione collettiva dall’art. 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 – nel dare sostegno ad una contrattazione “separata”, per ciascuna singola azienda – aggravi i vizi di incostituzionalità denunciati dai rimettenti.
1.7.– Ulteriore memoria è stata depositata dalla CGIL e da Filcams nazionale e Filcams di Milano e provincia, per ribadire il rispettivo interesse al proprio intervento ad adiuvandum anche in ragione dei numerosi segnalati casi di organizzazioni, ad esse aderenti, che, pur essendo maggioritarie in azienda per numero di aderenti, vengono escluse dalla titolarità dei diritti sindacali sol perché non firmatarie dei contratti ivi applicati.
Con riguardo al recentissimo Accordo interconfederale del 31 maggio 2013 – che ha posto alla base, sia della titolarità dei diritti sindacali, sia dell’obbligo a trattare, la regola della democrazia bilanciando il criterio associativo con quello elettivo, esattamente al pari di quanto già realizzato da tempo nel settore pubblico (artt. 42 e 43 del d.lgs. n. 165 del 2001) – gli intervenienti hanno poi sottolineato come esso sia «tuttavia limitato al solo ordinamento intersindacale facente capo a CGIL-CISL-UIL-Confindustria, con (momentanea?) esclusione del terziario e degli altri settori (bancari, assicurativi, ecc.) e soprattutto con la conferma della inefficacia di tale Accordo nei confronti delle imprese dissenzienti non associate alla Confindustria come la FIAT».
2.– Ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970 anche il Tribunale ordinario di Vercelli (ordinanza r.o. n. 287 del 2012), ravvisando il vulnus, ad opera della norma censurata, agli artt. 2, 3 e 39 Cost., con motivazioni sostanzialmente analoghe e, in parte, testualmente riproduttive di quelle svolte nella ordinanza del Tribunale ordinario di Modena, cui ha fatto adesivamente rinvio.
2.1.– Si è costituita nel relativo giudizio la Fiat Group Automobiles s.p.a. svolgendo le medesime argomentazioni di cui agli atti di costituzione delle società convenute nel giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Modena, sia con riferimento all’inammissibilità sia con riferimento all’infondatezza della questione in esame.
2.2.– Si è costituita anche la FIOM – Federazione provinciale di Vercelli e Valsesia, anch’essa facendo proprie le motivazioni del rimettente, in particolare mettendo in rilievo che il riservare il diritto alla rappresentanza aziendale dei lavoratori ai soli sindacati firmatari di contratti collettivi applicabili all’unità produttiva «può divenire un premio o un privilegio distribuito o negato a misura del solo interesse e degli scopi datoriali, e dunque privo di ogni ragionevole giustificazione di tutela collettiva, piuttosto che essere, come dovrebbe anche secondo lo spirito originario e la lettura sistematica dell’art. 19 entro la trama della l. n. 300 del 1970 data dalla giurisprudenza costituzionale, una funzione rappresentativa, la quale giovi ai lavoratori rappresentati».
2.3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, svolgendo le medesime argomentazioni di cui all’atto di intervento nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Modena.
2.4.– Ha depositato «atto di intervento e deduzioni» la FNSI (Federazione nazionale della stampa italiana), che, dopo aver premesso di essere l’unico organismo nazionale rappresentativo dei giornalisti in Italia, con conseguente legittimità del suo intervento ad adiuvandum, ha fatto proprie le considerazioni del giudice rimettente.
2.5.– Con memoria depositata il 10 giugno 2013, FIAT Group s.p.a., premessa la inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum della FNSI, ha ulteriormente e diffusamente argomentato, in subordine alla eccepita inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Vercelli, la non fondatezza delle stesse.
Nella prospettiva della norma di riferimento – ha, tra l’altro, sostenuto – «non è sufficiente il consenso come tale (peraltro scollegato dallo specifico processo negoziale, perché dedotto da indici storici e presuntivi); è anche indispensabile, beninteso al fine dell’accesso alle misure di sostegno, che il consenso venga bensì utilizzato per sollecitare le soluzioni contrattuali le più favorevoli possibili agli interessi dei quali si è portatori, ma senza sottrarsi alla dialettica con le altre parti ed al naturale esito compositivo cui è destinata a mettere capo. Allo stesso modo non può essere sufficiente la mera partecipazione alle trattative che non si saldi con un concreto ed effettivo risultato contrattuale».
2.6.– Anche la FIOM Vercelli ha depositato memoria, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle svolte con riguardo al procedimento originato dalla ordinanza r.o. n. 202 del 2012.
3.– A sua volta, il Tribunale ordinario di Torino, con l’ordinanza di rimessione in data 12 dicembre 2012 (r.o. n. 46 del 2013), emessa, nel corso di più giudizi riuniti, tra la FIOM di Torino e varie società del Gruppo FIAT (Abarth & C. s.p.a. ed altre tredici), ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 39 Cost., dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui limita la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali alle sole associazioni firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Rileva anche detto giudice l’anacronismo del disposto in esame, sulla base sia del mutato contesto delle relazioni sindacali che dell’evoluzione del quadro normativo.
3.1.– Si è costituita la FIOM – Federazione provinciale di Torino, con argomentazioni adesive alla prospettazione del giudice a quo.
3.2.– Anche la Abarth & C. s.p.a. e le altre società convenute nel giudizio a quo si sono costituite, svolgendo, in punto di inammissibilità e con riferimento al merito, le medesime argomentazioni formulate dalle società resistenti nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Modena.
3.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, reiterando le eccezioni di inammissibilità e di infondatezza della questione già formulate in relazione alle precedenti ordinanze di rinvio.
3.4.– Ha depositato altresì «atto di intervento» l’Unione industriale della Provincia di Torino che, previamente motivato il proprio interesse alla soluzione della questione sollevata dal Tribunale di Torino, ne ha eccepito la inammissibilità e, in subordine, la non fondatezza, con prospettazione adesiva a quella delle società convenute nel giudizio a quo.
3.5.– In prossimità dell’udienza, hanno depositato memoria, oltre alla FIOM di Torino, che ha ribadito le argomentazioni svolte nel precedente giudizio, anche la Abarth & C. s.p.a. e le altre società costituite, anche in questo caso per ulteriormente illustrare le proprie già formulate eccezioni di inammissibilità e di non fondatezza della questione.
3.6.– Altra memoria è stata depositata dalla Unione industriale della Provincia di Torino. La quale ha, a sua volta, ribadito il proprio interesse rispetto alla sollevata questione di costituzionalità.

Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Modena ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel testo risultante dall’abrogazione parziale disposta – in esito al referendum indetto con decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 85 dell’11 aprile 1995 – dal d.P.R. 28 luglio 1995, n. 312 (Abrogazione, a seguito di referendum popolare, della lettera a e parzialmente della lettera b dell’art. 19, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, sulla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, nonché differimento dell’entrata in vigore dell’abrogazione medesima), nella parte in cui consente la costituzione di rappresentanze aziendali alle sole «associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva», e non anche a quelle che abbiano comunque partecipato alla relativa negoziazione, pur non avendoli poi, per propria scelta, sottoscritti.
1.1.– La rilevanza della questione è motivata dal rimettente in ragione del fatto che, nei giudizi (riuniti) innanzi a lui pendenti, il sindacato ricorrente (FIOM) aveva denunciato il comportamento antisindacale delle controparti imprenditoriali (varie società del gruppo FIAT), le quali avevano disconosciuto la sua legittimazione a costituire rappresentanze sindacali, nelle rispettive unità produttive, in conseguenza, appunto, della mancata sottoscrizione del contratto collettivo, ivi applicato, da parte di esso sindacato, che pure aveva attivamente partecipato alle trattative che ne avevano preceduto la conclusione.
1.2.– In punto di non manifesta infondatezza del così proposto quesito, il Tribunale a quo, muovendo dalla considerazione che la partecipazione al negoziato è un dato che evidenzia l’effettiva forza contrattuale e, di riflesso, la capacità rappresentativa del sindacato, ne inferisce la «intrinseca irragionevolezza» del criterio selettivo della sottoscrizione del contratto, espresso dalla disposizione denunciata, «nel [l’attuale] momento in cui, applicato a fattispecie concrete, porta ad un risultato che contraddice il presupposto a dimostrazione del quale il criterio stesso era stato elaborato». Risultato cui, appunto, si perverrebbe nei processi a quibus, nei quali, alla luce di quel criterio, «dovrebbe riconoscersi maggior forza rappresentativa alle associazioni firmatarie del contratto […], anziché alla FIOM [che non lo ha sottoscritto], laddove in fatto è incontestato il contrario».
1.3.– La soluzione di una lettura estensiva della espressione “associazioni firmatarie”, nel senso della sua riferibilità anche ad organizzazioni che abbiano comunque partecipato al processo contrattuale – cui, in analoghe controversie, altri giudici di merito sono pervenuti, in funzione di una “interpretazione adeguatrice” al dettato costituzionale della disposizione in esame – non è, preliminarmente, ritenuta condivisibile dal Tribunale rimettente, per l’univocità del dato testuale che inevitabilmente vi si opporrebbe.
Da qui la conclusione che la reductio ad legitimitatem della norma denunciata, in quella delineata direzione estensiva, non possa altrimenti avvenire che attraverso un intervento (evidentemente additivo) di questa Corte.
1.4.– Non ignora, peraltro, il rimettente la sentenza n. 244 del 1996, e la ordinanza n. 345 del 1996, di questa Corte, che hanno, rispettivamente, escluso la fondatezza, e dichiarato poi la manifesta infondatezza, di identiche questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 39 Cost.) ora nuovamente evocati. Ma ritiene che quelle pronunzie – legate ad un diverso contesto, connotato dalla unitarietà di azione dei sindacati e dalla unitaria sottoscrizione dei contratti collettivi applicati in azienda, nel quale «ragionevolmente quella sottoscrizione poteva essere assunta a criterio misuratore della forza del sindacato e della sua rappresentatività» – vadano ora «ripensate alla luce dei mutamenti intercorsi nelle relazioni sindacali degli ultimi anni», caratterizzate dalla rottura della unità di azione delle organizzazioni maggiormente rappresentative e dalla conclusione di contratti collettivi “separati”.
Lo scenario delle attuali relazioni sindacali risulterebbe, inoltre, ulteriormente, e profondamente, alterato dal nuovo sistema contrattuale, definito «autoconcluso ed autosufficiente», instaurato dalle società del Gruppo FIAT, le quali, uscite dal sistema confindustriale e recedute dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i metalmeccanici, hanno stipulato, nelle rispettive aziende, un separato contratto collettivo specifico di primo livello, sottoscritto appunto solo da associazioni sindacali diverse dalla ricorrente.
Sarebbe mutato anche il quadro normativo di riferimento, in ragione della copiosa legislazione che ha elevato la contrattazione collettiva a fonte integrativa, suppletiva o derogatoria, della propria disciplina, in correlazione, sempre, ad un parametro di effettiva, e comparativamente maggiore, rappresentatività dei sindacati stipulanti.
Ed, appunto, alla luce di tali nuovi dati di sistema e di contesto, il criterio selettivo di cui alla lettera b) del primo comma del denunciato art. 19 verrebbe ora a «tradire la ratio stessa della disposizione dello Statuto, volta ad attribuire una finalità promozionale e incentivante all’attività del sindacato quale portatore di interesse del maggior numero di lavoratori, che trova una diretta copertura costituzionale nel principio solidaristico espresso dall’art. 2 Cost., nonché nello stesso principio di uguaglianza sostanziale, di cui al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione».
Si porrebbe, inoltre, quel criterio, in insanabile contrasto con il precetto dell’art. 39 Cost., incidendo negativamente sulla libertà di azione del sindacato, la cui decisione di sottoscrivere o no un contratto collettivo ne risulterebbe inevitabilmente «condizionata non solo dalla finalità di tutela degli interessi dei lavoratori, secondo la funzione regolativa propria della contrattazione collettiva, bensì anche dalla prospettiva di ottenere (firmando) o perdere (non firmando) i diritti del Titolo III, facenti capo direttamente all’associazione sindacale, potendo le due esigenze, come nella fattispecie in esame, entrare in conflitto, e dovendosi inoltre valutare la necessità, ai fini della sottoscrizione, del consenso e della collaborazione di parte datoriale». Con l’ulteriore conseguenza che, «in ipotesi estrema, ove la parte datoriale decidesse di non firmare alcun contratto collettivo, non vi sarebbe nell’unità produttiva alcuna rappresentanza sindacale».
2.– Sostanzialmente la stessa questione, con coincidenti argomentazioni, è stata sollevata anche dal Tribunale ordinario di Vercelli e dal Tribunale ordinario di Torino.
3.– I giudizi promossi da dette tre ordinanze, avendo il medesimo oggetto, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
4.– In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza adottata nel corso dell’udienza pubblica, ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi adesivi spiegati dalla CGIL, FILCAMS di Milano e Provincia e dalla Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI) nei giudizi di cui, rispettivamente, all’ordinanza del Tribunale ordinario di Modena ed a quella del Tribunale ordinario di Vercelli, nonché l’intervento ad opponendum dell’Associazione Unione industriale della Provincia di Torino, nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di detta città.
5.– È ancora preliminare l’esame delle eccezioni di inammissibilità della questione formulate da tutte le società resistenti nei giudizi a quibus e dal Presidente del Consiglio.
5.1.– Ad avviso delle predette resistenti, l’odierna questione sarebbe, infatti, inammissibile perché identica a quella già decisa, nel senso della non fondatezza, con la sentenza di questa Corte n. 244 del 1996; ovvero per incertezza e perplessità del petitum che comunque, se additivo, «omette[rebbe] di indicare in maniera sufficientemente circostanziata il “verso” della pretesa addizione» e, se demolitorio, renderebbe la questione stessa priva di rilevanza.
Argomento, quest’ultimo, fatto valere anche dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale «l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 19, lettera b), dello Statuto dei lavoratori determinerebbe il venir meno del criterio della sottoscrizione dei contratti quale criterio selettivo per l’accesso ai diritti di cui al Titolo III dello Statuto ma, in assenza di un diverso criterio selettivo, non darebbe titolo all’associazione sindacale di godere di quei diritti».
Con riguardo, poi, alle sole ordinanze dei Tribunali ordinari di Vercelli e di Torino, le società resistenti nei rispettivi processi promossi ai sensi dell’art. 28 della citata legge n. 300 del 1970 hanno ulteriormente eccepito il «difetto di motivazione in punto di (pretesa) non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sotto i profili enunciati», per essersi detti giudici limitati a motivare per relationem all’ordinanza del Tribunale ordinario di Modena.
5.2.– Nessuna delle prospettate eccezioni può essere accolta.
In primo luogo, non è esatto che l’esistenza di una precedente pronuncia di non fondatezza (ed anche di manifesta infondatezza) di una questione (ove pur) identica a quella riproposta dal giudice a quo sia, come si eccepisce, ostativa all’ammissibilità di quest’ultima, potendo un tal precedente unicamente, invece, rilevare nella successiva fase di esame del merito della questione stessa, alla luce degli eventuali nuovi profili argomentativi a suo supporto offerti dal rimettente.
Non è poi sostenibile che il petitum della odierna questione sia incerto o perplesso, poiché ciò che i giudici a quibus chiedono ora a questa Corte – in ragione della prospettata incostituzionalità dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970 – non è una decisione demolitoria, che effettivamente darebbe luogo ad un vuoto normativo colmabile solo dal legislatore, bensì, inequivocabilmente, una pronuncia additiva che consenta (ciò che, appunto, altri giudici di merito hanno ritenuto di poter direttamente desumere in via di interpretazione sistematica, evolutiva o, comunque, costituzionalmente adeguata della norma stessa) di estendere la legittimazione alla costituzione di rappresentanze aziendali anche ai sindacati che abbiano attivamente partecipato alle trattative per la stipula di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, ancorché non li abbiano poi sottoscritti (per ritenuta loro non idoneità a soddisfare gli interessi dei lavoratori).
E, in tal senso, il “verso” della addictio richiesta – e che, in relazione ai parametri evocati, si prospetta come obbligata – si sottrae, evidentemente, anche alla eccezione di non sufficientemente circostanziata sua indicazione.
L’inammissibilità non può essere, infine, riferita neppure alle sole ordinanze dei Tribunali di Vercelli e di Torino. Le quali, lungi dall’essere motivate solo per relationem alla precedente ordinanza del Tribunale di Modena, nel condividerne il petitum, richiamano puntualmente, e sviluppano anche ulteriormente, le argomentazioni che lo sorreggono.
6.– Nel merito, le questioni sono fondate.
6.1.– L’articolo 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori è stato ripetutamente sottoposto all’esame di questa Corte.
Le prime pronunce hanno riguardato la versione originaria di detto articolo, anteriore al referendum del 1995, ossia quella per la quale «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva».
I dubbi di legittimità costituzionale investivano, in quel contesto, la mancata attribuzione ad ogni associazione sindacale esistente nel luogo di lavoro della possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali.
Nell’affermare la razionalità del disegno statutario, con i due livelli di protezione accordata alle organizzazioni sindacali (libertà di associazione, da un lato, e selezione dei soggetti collettivi fondata sul principio della loro effettiva rappresentatività, dall’altro), la Corte si è soffermata anche sul criterio della “maggiore rappresentatività”, che pur conducendo a privilegiare le confederazioni “storiche”, non precludeva rappresentanze aziendali nell’ambito delle associazioni sindacali non affiliate alle confederazioni maggiormente rappresentative, purché si dimostrassero capaci di esprimere, attraverso la firma di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva, un grado di rappresentatività idoneo a tradursi in effettivo potere contrattuale a livello extra-aziendale (sentenze n. 334 del 1988 e n. 54 del 1974).
6.2.– A partire dalla seconda metà degli anni ottanta si è sviluppato, però, un dibattito critico in vista di una esigenza di revisione del meccanismo selettivo della “maggiore rappresentatività” previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro.
Ed è stata proprio questa Corte a segnalare, con un monito al legislatore, l’ormai ineludibile esigenza di elaborare nuove regole che conducessero a un ampliamento della cerchia dei soggetti chiamati ad avere accesso al sostegno privilegiato offerto dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, oltre ai sindacati maggiormente rappresentativi (sentenza n. 30 del 1990).
L’invito al legislatore è stato ribadito nella sentenza n. 1 del 1994, che ha dato ingresso ai due quesiti referendari che in quell’occasione la Corte era chiamata ad esaminare: il primo, “massimalista”, volto ad ottenere «l’abrogazione di tutti i criteri di maggiore rappresentatività adottati dall’art. 19, nelle lettere a e b», e il secondo, “minimalista”, mirante all’abrogazione dell’indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lettera a) e all’abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b).
In quella decisione, nella consapevolezza dei profili di criticità che avrebbero potuto annidarsi nel testo risultante dall’eventuale conformazione referendaria, nuovamente, questa Corte sottolineò che, comunque «il legislatore potrà intervenire dettando una disciplina sostanzialmente diversa da quella abrogata, improntata a modelli di rappresentatività sindacale compatibili con le norme costituzionali e in pari tempo consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo e alle nuove spinte aggregative degli interessi collettivi dei lavoratori».
6.3.– Come è noto, in occasione del referendum indetto con decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995 e tenutosi l’11 giugno 1995, ottenne il quorum solo “il quesito minimalista”, dando luogo all’attuale art. 19, che attribuisce il potere di costituire rappresentanze aziendali alle sole associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva di qualunque livello essi siano, dunque anche di livello aziendale.
Nel commentare la normativa “di risulta”, non si mancò di sottolineare come questa – pur coerente con la ratio referendaria di allargare il più possibile le maglie dell’agere sindacale anche a soggetti nuovi che fossero realmente presenti ed attivi nel panorama sindacale – rischiasse, però, nella sua accezione letterale, di prestare il fianco ad una applicazione sbilanciata: per un verso, in eccesso, ove l’espressione «associazioni firmatarie» fosse intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione, anche meramente adesiva, del contratto a fondare la titolarità dei diritti sindacali in azienda (con virtuale apertura a sindacati di comodo); e, per altro verso, in difetto, ove interpretata, quella espressione, come ostativa al riconoscimento dei diritti in questione nei confronti delle associazioni che, pur connotate da una azione sindacale sorretta da ampio consenso dei lavoratori, avessero ritenuto di non sottoscrivere il contratto applicato in azienda. E ciò con il risultato, nell’un caso e nell’altro, di una alterazione assiologica e funzionale della norma stessa, quanto al profilo del collegamento, non certamente rescisso dall’intervento referendario, tra titolarità dei diritti sindacali ed effettiva rappresentatività del soggetto che ne pretende l’attribuzione.
6.4.– Le pronunzie di questa Corte, nel quinquennio successivo al referendum – sentenza n. 244 del 1996, ordinanze n. 345 del 1996, n. 148 del 1997 e n. 76 del 1998 – hanno fornito indicazioni, per quanto in concreto sottoposto al suo esame, solo con riguardo al primo dei due sottolineati punti critici.
E, per questo aspetto, l’art. 19, «pur nella versione risultante dalla prova referendaria», ha superato il vaglio di costituzionalità sulla base di una esegesi costituzionalmente orientata, che ha condotto ad una sentenza interpretativa di rigetto. In virtù della quale, dalla premessa che «la rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia», bensì dalla «capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale», la Corte ha inferito che «Non è perciò sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto», e che «nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva» (sentenza n. 244 del 1996).
In questi termini, la Corte ha ritenuto che l’indice selettivo di cui alla lettera b), del primo comma, dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori «si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi di razionalità pratica, per la corrispondenza di tale criterio allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, e, di riflesso, della sua rappresentatività, tipicamente proprio dell’ordinamento sindacale».
6.5.– Nell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali, quale diffusamente descritto ed analizzato dai giudici a quibus, l’altro (speculare) profilo di contraddizione (per sbilanciamento in difetto) – teoricamente, per quanto detto, già presente nel sistema della lettera b) del primo comma, dell’art. 19, ma di fatto sin qui oscurato dalla esperienza pratica di una perdurante presenza in azienda dei sindacati confederali – viene invece ora compiutamente ad emersione. E si riflette nella concretezza di fattispecie in cui, come denunciato dai rimettenti, dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo è derivata la negazione di una rappresentatività che esiste, invece, nei fatti e nel consenso dei lavoratori addetti all’unità produttiva.
In questa nuova prospettiva si richiede, appunto, una rilettura dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende.
6.6.– L’aporia indotta dalla esclusione dal godimento dei diritti in azienda del sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell’effettivo consenso da parte dei lavoratori, che ne permette e al tempo stesso rende non eludibile l’accesso alle trattative, era già stata del resto rilevata; e dalle riflessioni svolte in proposito era scaturita anche la sollecitazione ad una interpretazione adeguatrice della norma in questione, alla stregua della quale, superandosi lo scoglio del suo tenore letterale, che fa espresso riferimento ai sindacati “firmatari”, si ritenesse condizione necessaria e sufficiente, per soddisfare il requisito previsto dall’art. 19, quella di aver effettivamente partecipato alle trattative, indipendentemente dalla sottoscrizione del contratto. Interpretazione di cui si è sostenuta la coerenza con la richiamata giurisprudenza costituzionale in materia di irrilevanza, ai fini dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, della mera sottoscrizione del contratto collettivo non preceduta dalla effettiva partecipazione alle trattative.
I Tribunali rimettenti, a differenza di quanto ritenuto da altri giudici di merito, hanno escluso, però, la possibilità della richiamata interpretazione adeguatrice, reputata incompatibile con il testo dell’art. 19, e perciò hanno sollevato le questioni di legittimità costituzionale all’odierno esame, al fine di conseguire, attraverso una pronuncia additiva, quel medesimo risultato di estensione della titolarità dei diritti sindacali, sulla base della nozione di “effettività dell’azione sindacale”, alle organizzazioni che abbiano partecipato alle trattative, ancorché non firmatarie del contratto.
7.– La Corte giudica corretta questa opzione ermeneutica, risultando effettivamente univoco e non suscettibile di una diversa lettura l’art. 19, tale, dunque, da non consentire l’applicazione di criteri estranei alla sua formulazione letterale.
Ma alla luce di una siffatta testuale interpretazione la disposizione in oggetto non sfugge alle censure sollevate dai rimettenti.
Infatti, nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e, per una sorta di eterogenesi dei fini, si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost.
Risulta, in primo luogo, violato l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della irragionevolezza intrinseca di quel criterio, e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati. Questi ultimi infatti nell’esercizio della loro funzione di autotutela dell’interesse collettivo – che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all’art. 2 Cost. – sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa.
E se, come appena dimostrato, il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, Cost., per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale.
La quale, se trova, a monte, in ragione di una sua acquisita rappresentatività, la tutela dell’art. 28 dello Statuto nell’ipotesi di un eventuale, non giustificato, suo negato accesso al tavolo delle trattative, si scontra poi, a valle, con l’effetto legale di estromissione dalle prerogative sindacali che la disposizione denunciata automaticamente collega alla sua decisione di non sottoscrivere il contratto. Ciò che si traduce, per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum.
8.– Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
9.– L’intervento additivo così operato dalla Corte, in coerenza con il petitum dei giudici a quibus e nei limiti di rilevanza della questione sollevata, non affronta il più generale problema della mancata attuazione complessiva dell’art. 39 Cost., né individua – e non potrebbe farlo – un criterio selettivo della rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori in azienda nel caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva per carenza di attività negoziale ovvero per impossibilità di pervenire ad un accordo aziendale.
Ad una tale evenienza può astrattamente darsi risposta attraverso una molteplicità di soluzioni. Queste potrebbero consistere, tra l’altro, nella valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti, o ancora nella introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, o nell’attribuzione al requisito previsto dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente, oppure al riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro. Compete al legislatore l’opzione tra queste od altre soluzioni.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2013.
Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

domenica 14 luglio 2013

Buonuscita dei dipendenti delle Poste Italiane: Interrogazione in Commissione Lavoro e Politiche Sociali alla Camera dei Deputati




Atto Camera

Interrogazione a risposta in commissione 5-00604
presentato da
GNECCHI Marialuisa
testo di
Venerdì 12 luglio 2013, seduta n. 52
  GNECCHI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la risoluzione conclusiva di dibattito (8-00208) relativa al trattamento di quiescenza spettante al personale dipendente di PosteItaliane – tema che dal 1998 non ha trovato soluzione, è stata approvata dalla Commissione lavoro in data 6 novembre 2012. In tale sede, il viceministro pro tempore Michel Martone espresse in nome del Governo un parere favorevole sull'ulteriore nuova versione della risoluzione in discussione, manifestando soddisfazione per l'intesa raggiunta con i presentatori dell'atto d'indirizzo, in vista dell'individuazione delle iniziative più idonee da adottare per la soluzione del problema;
   nello specifico la risoluzione impegnava il Governo ad assumere, entro il 31 gennaio 2013, ogni utile iniziativa che consentisse di conoscere la consistenza del patrimonio immobiliare di cui il suddetto fondo è dotato e la relativa destinazione d'uso e a valutare la possibilità, entro il 31 gennaio 2013, compatibilmente con gli effetti finanziari, di adottare eventuali iniziative, anche di natura normativa, che consentissero ai lavoratori di Poste Italiane spa di usufruire di un costante aggiornamento del valore dell'indennità di buonuscita, nonché di garantire il diritto alla corresponsione della buonuscita di detti lavoratori, pur in costanza di rapporto di lavoro;
   ad oggi non risulta che abbia avuto seguito l'impegno previsto dalla risoluzione allo scopo di porre fine ad una situazione che si trascina incredibilmente fin dall'anno 1998 –:
   se non ritenga il Ministro interrogato di attivarsi per dare seguito a quanto previsto dalla risoluzione di cui in premessa e di porre in essere le conseguenti iniziative, anche di natura normativa, che mettano fine ad una situazione non più procrastinabile. (5-00604)

sabato 6 luglio 2013

CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO IN POSTE ITALIANE, INTERESSANTE SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE DEL 29 MAGGIO 2013


La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 107 del 29 maggio scorso, chiarisce che non si può escludere, in presenza di realtà aziendali complesse,  l' individuazione di criteri alternativi, rigorosamente oggettivi,  rispetto all'indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, confermando in sostanza l'orientamento interpretativo della Corte di Cassazione (Sentenze n. 10175 del 28 aprile 2010 e n. 2990 del 7 febbraio 2011).


SENTENZA N. 107
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), promosso, in relazione agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trani nel procedimento vertente tra G.M. e la s.p.a. Poste Italiane con ordinanza del 21 febbraio 2011, iscritta al n. 173 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di G.M. e della s.p.a. Poste Italiane nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 27 marzo 2013 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Vincenzo De Michele e Sergio Galleano per G.M., Giampiero Proia e Luigi Fiorillo per la s.p.a. Poste Italiane e l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Trani in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 21 febbraio 2011, iscritta al n. 173 del Registro ordinanze 2011, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, degli articoli 1 e 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES).
1.1. – Riferisce il giudice rimettente che, con domanda del 29 novembre 2010, G.M. ha convenuto in giudizio la s.p.a. Poste Italiane, chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto il 20 maggio 2005, «per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale addetto al servizio recapito presso la Regione Sud 1 UP Canosa di Puglia assente nel periodo dal 23 maggio 2005 all’8 luglio 2005», in quanto nel documento negoziale non sarebbero stati specificamente indicati i lavoratori sostituiti, «nonché la ragione per la quale questi» ultimi sarebbero «rimasti assenti dal lavoro», nonostante che, all’indomani del d.lgs. n. 368 del 2001 – applicabile alla fattispecie ratione temporis – l’assunzione a termine per ragioni sostitutive richiedesse ancora dette indicazioni; che la società convenuta ha contestato la necessità di tale adempimento, poiché la precedente norma di riferimento – e cioè l’art. 1, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato) – è stata abrogata dall’art. 11, primo comma, del d.lgs. n. 368 del 2001, senza essere sostituita da altra disposizione di analogo contenuto.
1.2. – Precisa il rimettente che la fattispecie contrattuale è pacificamente disciplinata ratione temporis dal d.lgs. n. 368 del 2011, il cui art. 11 ha abrogato «la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni», ivi compreso l’art. 1, comma 2, lettera b), a mente del quale era «consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto: ... quando l’assunzione» avesse avuto «luogo, per sostituire lavoratori assenti e per i quali» fosse sussistito «il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine» fosse stato «indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione»; che, per effetto di tale abrogazione, la causale sostitutiva è oggi disciplinata dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, il quale si limita a consentire «l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere ... sostitutivo», senza più richiedere – quantomeno espressamente – che, nel contratto, siano indicati il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione.
1.3. – Il giudice a quo passa, dunque, a ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia, rammentando che la Corte costituzionale, investita illo tempore dallo stesso Tribunale di Trani delle questioni di legittimità delle disposizioni succitate in relazione agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., ne aveva ritenuto la non fondatezza (sentenza n. 214 del 2009, seguita dalle ordinanze n. 325 del 2009 e n. 65 del 2010), in quanto l’onere di specificazione previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 implica che, ogni qual volta l’assunzione a tempo determinato avvenga per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo, debbano risultare per iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione. Ed infatti secondo il giudice delle leggi – continua il rimettente – poiché per «ragioni sostitutive» si devono intendere motivi connessi con l’esigenza di sostituire uno o più lavoratori, la specificazione di tali motivi impone anche l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori da sostituire e delle cause della loro sostituzione, onde realizzare la finalità, sottesa all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Donde l’insussistenza della violazione dell’art. 77 Cost., non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 innovato, sotto questo profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella legge n. 230 del 1962, ed essendo stato il Governo autorizzato – dall’art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2000) – ad apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati dalla normativa da attuare, al fine di evitare disarmonie tra le norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e, appunto, quelle già vigenti. Solo così si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega.
Neppure la denunciata lesione dell’art. 76 Cost. era stata riscontrata, poiché – secondo la valutazione della Corte – le norme censurate, limitandosi a riprodurre la disciplina previgente, non determinano alcuna diminuzione della tutela già garantita ai lavoratori dal precedente regime e, pertanto, non si pongono in contrasto con la clausola n. 8.3 dell’accordo-quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela già goduto dai lavoratori. Dopo queste pronunce interpretative di rigetto del Giudice delle leggi che sembravano aver risolto ogni problema ermeneutico – prosegue il rimettente – la Corte di cassazione, con due sentenze del 26 gennaio 2010 (n. 1576 e n. 1577), ha ritenuto di poter «interpretare» la sentenza «interpretativa di rigetto» del Giudice delle leggi e, sulla base di questa, di essere abilitata ad operare un distinguo, nel senso «che, nella illimitata casistica che offre la realtà concreta delle fattispecie aziendali, accanto a fattispecie elementari in cui è possibile individuare fisicamente il lavoratore o i lavoratori da sostituire, esistono fattispecie complesse in cui la stessa indicazione non è possibile e “l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori” deve passare necessariamente attraverso la “specificazione dei motivi”, mediante l’indicazione di criteri che, prescindendo dall’individuazione delle persone, siano tali da non vanificare il criterio selettivo che richiede la norma». Con sentenza 28 aprile 2010, n. 10175, la Suprema Corte ha ribadito il suddetto orientamento (ulteriormente confermato da Cass. 7 febbraio 2011, n. 2990), aggiungendo che il contratto a termine «in una situazione aziendale complessa è configurabile come strumento di inserimento del lavoratore assunto in un processo in cui la sostituzione sia riferita non ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica che sia occasionalmente scoperta; in quest’ultimo caso, il requisito della specificità può così ritenersi soddisfatto non tanto con l’indicazione nominativa del lavoratore o dei lavoratori sostituiti, quanto con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le scoperture che, per quella stessa funzione, si sono realizzate per il periodo dell’assunzione».
Dalle sopra richiamate pronunce della Corte di legittimità – tutte del medesimo tenore – il Tribunale di Trani desume che sia tornata attuale la questione di costituzionalità già da esso sollevata con ordinanza del 21 aprile 2008. Anzi, che siano emersi ulteriori profili di illegittimità delle norme nuovamente censurate.
Il giudice a quo muove dalla premessa che, in ragione della pluralità delle sentenze rese in argomento dalla Suprema Corte, debba ormai considerarsi «diritto vivente» il principio secondo cui, nei contratti a tempo determinato, con specifico riferimento alle cosiddette esigenze sostitutive, l’onere di specificità preteso dal comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 possa essere assolto dal datore di lavoro in maniera diversa, a seconda della complessità o meno della struttura aziendale e che, quindi, l’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito e della ragione della sua assenza sia necessaria solo in una situazione aziendale elementare. Tale distinguo – in quanto costituente «diritto vivente» – è ritenuto vincolante dal giudice a quo, che si reputa «tenuto a farne applicazione nel caso di specie, benché non ve ne sia traccia nei provvedimenti della Corte costituzionale innanzi richiamati e per quanto lo ritenga non condivisibile alla luce delle puntuali ragioni espresse dalla Corte d’appello di Bari (tra le tante, v. la sentenza n. 5546/2010)», per la quale «sembra quasi ovvio osservare che anche le realtà aziendali più complesse sono strutturate sulla base di una articolazione territoriale diffusa di molteplici unità produttive, a loro volta connesse, in via gerarchica e funzionale, ad organismi intermedi tra le basi operative ed il vertice aziendale. Sicché è evidente che ciascun organismo intermedio, attraverso il preposto a ciascuna sede o unità operativa, è in grado di conoscere esattamente il lavoratore o i lavoratori (aventi diritto alla conservazione del posto) e, quindi, è ben in grado di renderlo noto, in sede di stipula del contratto, anche al contrattista a termine».
1.4. – Tutto ciò premesso, il giudice a quo rileva, anzitutto, la non manifesta infondatezza delle proposte questioni di legittimità.
1.4.1. – Con riguardo all’art. 3 Cost., perché, a suo avviso, consentire nei contratti a termine per esigenze sostitutive forme differenziate di controllo (a seconda della dimensione della struttura organizzativa aziendale) finirebbe per produrre discriminazioni assolutamente ingiustificate dal punto di vista dei lavoratori, così da legittimare, in alcune situazioni, come quella di specie, forme di controllo solo apparenti e per nulla appaganti, oltre che insufficienti ad «assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto», così come richiesto dalla Corte costituzionale nelle pronunzie innanzi richiamate.
1.4.2. – Con riguardo all’art. 77, primo comma, Cost., perché nell’ordinanza con la quale lo stesso tribunale aveva già sollevato la questione di costituzionalità e, soprattutto, nella sentenza n. 214 del 2009 della Corte costituzionale (e nelle sue ordinanze successive), il problema che si era posto era proprio quello di verificare se il legislatore delegato fosse stato autorizzato da quello delegante ad abrogare l’art. 1, secondo comma, lettera b), della legge n. 230 del 1962, che consentiva l’apposizione del termine «quando l’assunzione» avesse avuto «luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali» fosse sussistito «il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine» fosse stato «indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione». Di fronte a tale questione, l’interpretazione «vivente» del giudice di legittimità, ad avviso del giudice a quo, avrebbe ignorato che la Corte costituzionale aveva adottato un’interpretazione “conservativa” (nel senso che nulla era cambiato rispetto al passato) proprio perché altrimenti (avendo posto la premessa che il legislatore delegato era tenuto, in parte qua, a riprodurre la stessa norma previgente) sarebbe stata costretta a dichiarare l’illegittimità delle norme scrutinate per mancanza di delega. Anche perché la direttiva comunitaria che il Governo era stato delegato ad attuare non imponeva certamente di abrogare l’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 230 del 1962, limitandosi, invece, a richiedere d’intervenire solo su alcuni aspetti delle normative interne in tema di contratto a termine, peraltro estranei ai presupposti per l’apposizione della clausola al primo contratto di lavoro a tempo determinato.
1.5. – Secondo il tribunale rimettente, infine, la questione sarebbe da ritenere rilevante nel giudizio a quo, in quanto l’eventuale espunzione dal nostro ordinamento giuridico degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, siccome comportante la reviviscenza dell’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 230 del 1962, rifluirebbe certamente nel giudizio promosso dal ricorrente, essendo in grado, ex se, di produrre l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro controverso, stante la mancata indicazione, nel documento negoziale, dei lavoratori sostituiti, nonché della ragione per la quale questi sarebbero rimasti assenti dal lavoro. Nel contempo, il quadro normativo, interpretato nei termini prospettati dalla Corte di cassazione, se ed in quanto confermato, imporrebbe al giudice a quo di non tenere conto, ai fini della delibazione della legittimità del termine, della carenza nel documento negoziale di qualsiasi riferimento al nominativo del lavoratore sostituito e al motivo della sua assenza.
2. – Con memoria depositata il 12 settembre 2011 si é costituito G.M., chiedendo che la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, con riferimento agli artt. 3 e 77, primo comma, Cost. ed argomentando ampiamente ai fini dell’accoglimento delle questioni proposte dal Tribunale di Trani con l’ordinanza succitata.
2.1. – Il ricorrente nel giudizio a quo, dopo aver ricostruito dettagliatamente tutto il pregresso quadro giurisprudenziale, interno ed europeo, stigmatizza l’orientamento accolto dalla Corte di cassazione, perché, a suo avviso, «limitarsi a richiedere, in caso di assunzioni per esigenze sostitutive l’area geografica di operatività, la qualifica di appartenenza (senza alcun riferimento allo specifico settore di operatività) e limitare il controllo giudiziale al raffronto tra assenti (a tempo indeterminato) e assunti (a tempo determinato) significa consentire all’azienda di assumere una quota “fissa” di lavoratori “precari” destinati a sostituire in pianta stabile le ordinarie assenze del personale dovute a ferie, malattia, maternità, ecc... ». Annota criticamente taluni arresti della Suprema Corte in questa materia sino al punto di mettere in discussione il ruolo stesso della nomofilachia. Apprezza, invece, la giurisprudenza di merito, anche a livello di alcune corti territoriali, secondo cui – come nella sentenza del Tribunale di Trani del 4 ottobre 2010, che ha fatto seguito alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 24 giugno 2010, in causa C-98/09, già dal predetto giudice sollecitata nel medesimo caso – «l’assenza del/i nominativo/i del/i lavoratore/i e della causa della sostituzione non consente di affermare che la “motivazione” possa ritenersi specificata in modo chiaro ed esaustivo, per cui non si può ritenere assolto il requisito formale di cui all’art. l del d.lgs. n. 368 del 2001 in ordine all’individuazione per iscritto delle ragioni dell’apposizione del termine».
Conclusivamente, la suddetta parte privata evidenzia non potersi comprendere la corrispondenza logica e la congruenza interpretativa tra la trasparenza e immodificabilità, pretese ex ante dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009 e dalla stessa Corte di cassazione nelle sentenze n. 12985 del 2008, n. 2279 del 2010 e n. 10033 del 2010, della rigorosa motivazione dell’apposizione del termine, da un lato, e la prova a carico del datore di lavoro in sede giudiziale di giustificare l’esistenza delle ragioni eccezionali (fino al 20 giugno 2008), indi comunque temporanee (dal 21 giugno 2008 all’attualità) già rappresentate nella lettera di assunzione, tenuto conto del fatto che le ragioni sostitutive, a suo dire, non consentono (perché da esplicitare, pena la conversione, prima che inizi il rapporto a termine) di integrare “indirettamente” la motivazione generica.
3. – Con memoria depositata il 13 settembre 2011 si é costituita la s.p.a. Poste Italiane, deducendo l’inammissibilità e/o infondatezza di tutti i profili di sospetta illegittimità denunciati dal rimettente.
3.1. – La predetta società eccepisce in limine l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Trani per difetto di rilevanza sotto due profili.
3.1.1. – In primo luogo, lamenta, in particolare, che il giudice a quo non abbia minimamente verificato – e, comunque, non abbia adeguatamente motivato – se, in concreto, l’applicazione al caso di specie del diritto vivente censurato potesse determinare il rigetto del ricorso. Solo in tal caso, infatti, la soluzione della questione sollevata sarebbe stata, a suo avviso, effettivamente rilevante ai fini della decisione del giudizio principale.
3.1.2. – In secondo luogo, contesta la configurabilità di un’interpretazione giurisprudenziale qualificabile come diritto vivente alla luce dei principi espressi dalla stessa Corte costituzionale.
3.2. – Nel merito, la predetta società argomenta diffusamente a sostegno della non fondatezza delle questioni proposte dal giudice a quo.
Premessa la continuità della giurisprudenza della Corte di cassazione rispetto a quanto affermato sul piano interpretativo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 214 del 2009 e nelle due sue successive ordinanze conformi, evidenzia che anche l’interpretazione di (ritenuto) diritto vivente della prima, richiedente, a titolo esemplificativo, l’indicazione dell’«ambito territoriale di riferimento», del «luogo della prestazione lavorativa», delle «mansioni del lavoratore (o dei lavoratori) da sostituire», sarebbe volta a salvaguardare, come l’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, la finalità della specificazione, destinata ad «assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto».
3.2.1. – Pertanto, a parere della società convenuta nel giudizio a quo, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 3 Cost., non potendosi ravvisare alcuna apprezzabile differenza, dal punto di vista del livello di garanzia del lavoratore assunto a termine, tra le ipotesi in cui il lavoratore sostituto viene assunto in una piccola o media impresa e dev’essere indicato il nominativo del lavoratore da sostituire e quelle ipotesi in cui lo stesso sia reclutato in imprese di dimensioni maggiori e devono, quindi, essere indicati elementi ulteriori egualmente idonei alla individuazione dei lavoratori cui supplire, ancorché non identificati nominativamente (ambito territoriale di riferimento, luogo della prestazione, mansioni dei lavoratori da sostituire e diritto degli stessi alla conservazione del posto).
In entrambi i casi, solo il datore di lavoro sarebbe gravato dall’onere di provare effettivamente la ricorrenza delle ragioni sostitutive, sollecitando sempre e comunque il giudice a verificare l’effettiva sussistenza del presupposto di legittimità prospettato.
Ad avviso di detta parte privata, inoltre, pur offrendo l’orientamento della Corte di cassazione «equivalenti e ragionevoli strumenti di controllo» a tutti i lavoratori interessati assunti per ragioni di carattere sostitutivo, sarebbe, in ogni caso, dirimente l’insegnamento della Corte costituzionale, impartito nello scrutinio della normativa in tema di licenziamenti, per cui la previsione di discipline differenziate in base al criterio della dimensione dell’impresa è conforme al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., sul fondamento che la componente numerica dell’azienda ha riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato. Donde l’immunità da vizi d’incostituzionalità e la razionalità della delimitazione di categorie di datori di lavoro a seconda della forza lavoro impiegata e delle strutture organizzative adottate.
3.2.2. – Quanto poi alla conformità degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del 2011 all’art. 77 Cost., la società Poste Italiane osserva che la legge delega n. 422 del 2000 (sub art. 2, comma 1, lettera b) aveva autorizzato espressamente il Governo ad apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti – e così a prevedere, altresì, disposizioni innovative, non solo ripetitive – al fine di evitare disarmonie del complessivo quadro normativo, come già rilevato nella già menzionata sentenza n. 214 del 2009. Sicché, la focalizzazione della normativa di diretta attuazione della direttiva comunitaria su taluni aspetti (quali il divieto di discriminazioni a carico dei lavoratori assunti a termine o le misure di contrasto all’abuso dell’istituto derivante dalla reiterazione dei contratti di durata temporanea) avrebbe non solo autorizzato, ma addirittura reso necessario assoggettare all’“armonizzazione” la legge n. 230 del 1962. E ciò, anche alla luce del valore, esaltato dal diritto europeo, della riservatezza, con cui l’abrogata disciplina, comportando la comunicazione ad un terzo (quale il lavoratore assunto a termine) di informazioni sensibili attinenti, non solo all’assenza di altro lavoratore, ma anche al motivo della sua assenza, si sarebbe posta altrimenti in attrito.
4. – Con atto depositato il 13 settembre 2011 è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la dichiarazione d’inammissibilità e, comunque, d’infondatezza delle questioni proposte dal Tribunale di Trani con l’ordinanza succitata.
4.1. – In primo luogo, ad avviso della difesa dello Stato, le questioni dovrebbero essere considerate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza, perché il giudice rimettente avrebbe dovuto accertare previamente la ricorrenza di condizioni concrete tali da rendere impossibile la specificazione del nominativo del lavoratore sostituito, senza trascurare di verificare l’enunciazione di altri criteri che, prescindendo dall’identificazione delle persone, fossero idonei a non vanificare l’interesse tutelato dalla norma, come quelli, particolarmente rigorosi, enucleati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
4.2. – Nel merito, le questioni dovrebbero essere ritenute non fondate.
4.2.1. – Contro la denunciata violazione dell’art. 3 Cost., rileva la difesa dello Stato che il principio di eguaglianza in materia di lavoro non può essere considerato solo in funzione della posizione di taluni prestatori d’opera rispetto agli altri, ma va visto anche in relazione alla situazione degli imprenditori. Tale principio trova ampia declinazione nel diritto positivo, in particolare nelle diverse disposizioni che introducono discipline differenti per le grandi e le piccole imprese, confermando che le esigenze funzionali che le caratterizzano non possono non reagire anche sul rapporto di lavoro, imprimendo a questo caratteri differenziati. Da questo punto di vista, la ratio ispiratrice dell’interpretazione della Corte di cassazione sarebbe identica a quella sottesa alla giurisprudenza costituzionale, costante nell’ammettere che la componente numerica possa avere riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato (ex plurimis, sentenza n. 2 del 1986), tenuto conto che «la diversificazione, per determinati effetti, a seconda delle dimensioni, maggiori o minori, che il datore di lavoro imprime alla organizzazione della sua attività, è un dato aderente alla realtà economica, di comune esperienza» (sentenza n. 81 del 1969).
4.2.2. – Quanto poi alla circostanza che il legislatore delegato avrebbe superato i limiti della delega, perché questa si sarebbe limitata al recepimento della direttiva (e tale recepimento non avrebbe richiesto alcun intervento sull’art. l della legge n. 230 del 1962, che stabiliva i requisiti di validità dell’assunzione a termine), osserva la difesa dello Stato che il contenuto della delega non era circoscritto al recepimento della direttiva – al quale alludeva l’art. l, comma l, della legge n. 422 del 2000 – ma si estendeva alle modificazioni ed integrazioni delle discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, occorrenti ad evitare disarmonie (è citato, al riguardo, l’art. 2, comma l, lettera b), della predetta legge). Con la conseguenza che il legislatore delegato del 2001 non avrebbe affatto ecceduto dai limiti della delega, ma si sarebbe mosso nel pieno rispetto di essa, recependo correttamente la direttiva (conformandosi alle indicazioni della stessa in tema di prevenzione di abusi, relativamente alle ipotesi di successione di più contratti e al divieto di discriminazione) ed attuando, per altro verso, l’armonizzazione prevista dal citato art. 2 della legge n. 422 del 2000.
5. – Con memorie depositate in prossimità dell’udienza le parti private hanno insistito nelle conclusioni già rassegnate, ciascuna argomentando ulteriormente le proprie rispettive posizioni.

Considerato in diritto
1. – Con ordinanza iscritta al n. 173 del registro ordinanze del 2011 il Tribunale di Trani ha proposto questioni di legittimità costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, degli articoli 1 e 11 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES). In particolare, l’art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 reca l’abrogazione della precedente legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), la quale prevedeva che l’assunzione a tempo determinato fosse consentita per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, ma aggiungeva esplicitamente che, in tal caso, era necessario indicare il nome del lavoratore sostituito (art. 1, comma 2, lettera b). La necessità di una simile esplicita indicazione non è invece espressamente ripetuta nell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 che si limita ad enunciare, al comma 1, che un termine al contratto di lavoro può essere fissato «a fronte di ragioni di carattere sostitutivo» (oltre che tecnico, produttivo ovvero organizzativo), purché specificate in atto scritto, a pena d’inefficacia dell’apposizione del termine (comma 2).
2. – Premette il rimettente che la norma censurata, alla luce dell’interpretazione del diritto vivente risultante da un’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, regolerebbe in modo non uniforme le assunzioni a tempo determinato per ragioni sostitutive. Nelle fattispecie elementari, ove sarebbe possibile individuare fisicamente il lavoratore o i lavoratori da sostituire, occorrerebbe indicarli nominativamente nel contratto, mentre nelle fattispecie complesse, laddove la stessa indicazione non sarebbe possibile, la specificazione dei motivi dell’apposizione del termine potrebbe essere assolta mediante l’indicazione di criteri che, pur prescindendo dall’individuazione delle persone da sostituire, siano, comunque, tali da non vanificare il criterio selettivo richiesto dalla norma.
In tal modo, ad avviso del rimettente, si determinerebbe, anzitutto, un’inammissibile discriminazione tra lavoratori dipendenti a tempo determinato in relazione alla dimensione delle aziende ove siano volta per volta assunti per ragioni sostitutive, in violazione dell’art. 3 Cost.
In secondo luogo, vi sarebbe contrasto con l’art. 77, primo comma, Cost., perché secondo il giudice a quo, avuto riguardo ai principi e criteri direttivi della legge delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2000), una interpretazione dell’art. l del d.lgs. n. 368 del 2001 che avesse ipotizzato, per le causali sostitutive, una disciplina anche solo parzialmente difforme da quella precedente sarebbe «fuori delega».
2.1. – La parte privata s.p.a. Poste Italiane e la difesa dello Stato hanno eccepito preliminarmente l’inammissibilità delle questioni per difetto di (motivazione sulla) rilevanza. In particolare, il giudice rimettente avrebbe trascurato di verificare la rispondenza della causale sostitutiva enunciata nel contratto portato al suo esame ai criteri di specificità recepiti dal diritto vivente. Infatti, se la clausola appositiva del termine fosse viziata anche seguendo l’impostazione della Suprema Corte – in quanto carente dei criteri di specificazione della causale che la stessa esige in alternativa alla indicazione del nome del lavoratore sostituito –, il dubbio di legittimità della normativa in oggetto alla stregua dell’interpretazione censurata non avrebbe alcuna influenza nel giudizio a quo.
L’eccezione dev’essere rigettata.
Il giudice rimettente ha descritto in modo sufficientemente preciso la fattispecie sottoposta al suo scrutinio (relativa all’assunzione di un lavoratore a termine per ragioni sostitutive senza l’indicazione del nome del lavoratore sostituito). Ha, quindi, dedotto puntualmente di dovere applicare la normativa regolatrice della materia alla stregua della interpretazione sospettata in contrasto con la Costituzione (art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, in combinato disposto con il successivo art. 11). Tale motivazione è sufficiente a palesare la rilevanza delle questioni sollevate ai fini della definizione del giudizio principale.
2.2. – La società convenuta nel giudizio principale ha eccepito, inoltre, l’inesistenza di un diritto vivente, tale non potendo essere qualificato – a suo avviso – l’orientamento adottato dalla Corte di cassazione.
Neppure tale eccezione è fondata, perché la giurisprudenza di legittimità, come dimostrano una serie di decisioni della Corte di cassazione, sezione lavoro, tutte dello stesso segno (dalle sentenze 26 gennaio 2010, n. 1576 e n. 1577 alla sentenza 11 febbraio 2013, n. 3176), si è ormai fermamente attestata sulle posizioni censurate dal giudice a quo, così da assumere i caratteri di un vero e proprio diritto vivente.
2.3. – Nel merito, le questioni non sono fondate.
2.3.1. – Erroneamente il Tribunale di Trani ritiene che la Corte di cassazione avrebbe stravolto l’interpretazione delle disposizioni censurate che questa Corte ha fornito con la sentenza n. 214 del 2009 (seguita dalle ordinanze n. 325 del 2009 e n. 65 del 2010).
Il legislatore, prescrivendo l’onere di specificazione delle ragioni sostitutive per poter assumere lavoratori a tempo determinato, ha imposto una regola di trasparenza. Ha precisato, cioè, che occorre dare giustificazione della sostituzione del personale assente con diritto alla conservazione del posto con una chiara indicazione della causa.
In tale prospettiva, il criterio della identificazione nominativa del personale sostituito è da ritenere certamente il più semplice e idoneo a soddisfare l’esigenza di una nitida individuazione della ragione sostitutiva, ma non l’unico.
Non si può escludere, infatti, la legittimità di criteri alternativi di specificazione, sempreché essi siano rigorosamente adeguati allo stesso fine e saldamente ancorati a dati di fatto oggettivi. E così, anche quando ci si trovi – come ha rilevato la Corte di cassazione – di fronte ad ipotesi di supplenza più complesse, nelle quali l’indicazione preventiva del lavoratore sostituito non sia praticabile per la notevole dimensione dell’azienda o per l’elevato numero degli avvicendamenti, la trasparenza della scelta dev’essere, nondimeno, scrupolosamente garantita. In altre parole, si deve assicurare in ogni modo che la causa della sostituzione di personale sia effettiva, immutabile nel corso del rapporto e verificabile, ove revocata in dubbio.
La giurisprudenza di legittimità, muovendo da tale assunto, ha preso solo atto della «illimitata casistica che offre la realtà concreta delle fattispecie aziendali» e ne ha desunto la necessità di tenere conto delle peculiarità dei molteplici contesti organizzativi ai fini dell’assolvimento dell’onere del datore di lavoro di specificare le esigenze sostitutive nel contratto di lavoro a tempo determinato. In conseguenza, l’apposizione del termine per “ragioni sostitutive” è stata ritenuta legittima anche quando, avuto riguardo alla complessità di certe situazioni aziendali, l’enunciazione dell’esigenza di sopperire all’assenza momentanea di lavoratori a tempo indeterminato sia accompagnata dall’indicazione, in luogo del nominativo, di elementi differenti, quali l’ambito territoriale dell’assunzione, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni e il diritto alla conservazione del posto dei dipendenti da sostituire, che permettano ugualmente di verificare l’effettiva sussistenza e di determinare il numero di questi ultimi (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze n. 1576 e n. 1577 del 2010, cit.).
In tal senso, le sentenze della Corte di cassazione hanno dato una lettura coerente con le decisioni di questa Corte. Con esse si è voluto soltanto garantire pienamente la trasparenza e la veridicità della causale e la sua successiva verificabilità in caso di contestazione.
Ne deriva che la denunciata violazione dell’art. 77, primo comma, Cost. per mancanza di delega non sussiste e che la questione sollevata sul punto non è fondata.
Secondo la legge delega n. 422 del 2000, i principi e criteri direttivi del d.lgs. n. 368 del 2001 devono essere rinvenuti: a) nella direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) di cui il citato d.lgs. costituisce attuazione, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge di delegazione; b) nel successivo comma 2, lettera b), dell’art. 2 della medesima legge di delega, che autorizza il Governo, «per evitare disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, [ad introdurre] le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse».
Tali criteri direttivi sono stati puntualmente osservati.
Sotto il primo profilo, la Corte di giustizia dell’Unione europea, esprimendosi sulla compatibilità comunitaria della normativa in oggetto (sentenza del 24 giugno 2010, in causa C-98/09), ha riaffermato il principio che anche il primo ed unico contratto a termine rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 1999/70/CE e dell’accordo quadro ad essa allegato. Correlativamente, la stessa Corte di giustizia ha riconosciuto che un intervento del legislatore nazionale come quello in questione, ancorché (nella prospettiva accolta dalla Corte di Lussemburgo) elimini addirittura l’obbligo datoriale d’indicare nei contratti a tempo determinato, conclusi per sostituire lavoratori assenti, il nome di tali lavoratori e i motivi della loro sostituzione e prescriva, in sua vece, la specificazione per iscritto delle ragioni del ricorso a siffatti contratti, non solo è possibile, ma neppure viola (in linea di principio) la clausola della direttiva n. 8.3., che vieta una riduzione del livello generale di tutela già goduto dai lavoratori.
Sotto il secondo profilo, questa Corte ha già riconosciuto nella sentenza n. 214 del 2009 la legittimità di disposizioni che, pur non essendo perfettamente riproduttive di quelle preesistenti, siano, però, finalizzate ad assicurare «la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico».
Al riguardo, occorre considerare che il regime anteriore al d.lgs. n. 368 del 2001 non si esauriva nella legge n. 230 del 1962, ma comprendeva, altresì, l’art. 23, comma 1, della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro). Orbene, tale norma (che è stata definita una “delega in bianco”: Corte di cassazione, sezioni unite, 2 marzo 2006, n. 4588) autorizzava i contratti collettivi a prevedere altre ipotesi di assunzione a termine oltre il numero chiuso delle causali (all’inizio tassativamente) stabilite dalla legge. Queste ulteriori causali di fonte contrattuale, ammissibili anche per ragioni sostitutive, potevano prescindere dall’identificazione del nominativo del lavoratore al quale quello assunto a tempo determinato sarebbe subentrato. Ciò è accaduto proprio nella contrattazione per i dipendenti della società convenuta nel giudizio a quo, ove, ad esempio, la causale sostitutiva per ferie non richiedeva alcuna specificazione di tal genere (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 4 agosto 2011, n. 16987 e 2 marzo 2007, n. 4933). Quindi, anche nell’ordinamento previgente la regola dell’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito non era assoluta e inderogabile.
Il d.lgs. n. 368 del 2001 ha abrogato – sub art. 11 – sia la legge n. 230 del 1962, sia l’art. 23 della legge n. 56 del 1987 e ha introdotto – sub art. 1 – una disciplina generale in materia di cause giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro destinata a subentrare a quella risultante dalla combinazione dell’art. 1 della legge n. 230 del 1962 con l’art. 23, comma 1, della legge n. 56 del 1987. Già quest’ultima disposizione, però, ammetteva – come detto – che per il tramite delle clausole della contrattazione collettiva potessero essere stipulati contratti a tempo determinato per esigenze sostitutive senza la necessità d’indicare nel documento negoziale il nominativo del dipendente sostituito. Ed allora l’interpretazione dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, come accreditata dalla Corte di cassazione nel solco dei principi enunciati da questa Corte, non segna una inversione di tendenza neppure rispetto alla disciplina precedente. Essa, anzi, si giustifica in quell’ottica di armonizzazione e coerenza sistematica cui risponde l’inserimento delle esigenze sostitutive nella nuova previsione generale delle ragioni a fronte delle quali il contratto di lavoro subordinato può essere stipulato a tempo determinato.
In conclusione, le disposizioni censurate del d.lgs. n. 368 del 2001, intervenute in un ambito regolato dall’accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE (e dall’accordo quadro ad essa allegato) come quello del contratto a termine (anche se primo ed unico) per armonizzarne la disciplina nell’ambito delle innovazioni apportate in attuazione della normativa europea, sono certamente contenute nel “programma” della legge di delegazione.
3.3.2 – Non sussiste neppure la denunciata lesione dell’art. 3 Cost.
Non è, infatti, ravvisabile alcuna discriminazione dei lavoratori subordinati assunti a termine per esigenze sostitutive da imprese di grandi dimensioni rispetto a quelli assunti alle dipendenze di piccole imprese. In entrambi i casi, in applicazione della medesima regola, il datore di lavoro deve sempre formalizzare rigorosamente per iscritto le ragioni sostitutive nella lettera di assunzione a tempo determinato. Tanto è vero che il criterio di specificazione in concreto adottato, anche se alternativo a quello primario dell’indicazione nominativa del lavoratore sostituito, dev’essere, comunque, talmente preciso da garantire appieno la riconoscibilità e la verificabilità della motivazione addotta a fondamento della clausola appositiva del termine, già all’atto della stipulazione del contratto.
Sicché, in definitiva, la diversa modulazione del concetto di specificità dell’esigenza di supplire a personale solo transitoriamente assente non dà luogo ad un regime giuridico differenziato in base alla dimensione aziendale del datore di lavoro. E la valutazione volta per volta della rispondenza delle ragioni sostitutive rappresentate per iscritto dal datore di lavoro all’onere di specificazione di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001 è necessariamente rimessa al prudente apprezzamento del giudice della singola fattispecie.
Ne consegue la non fondatezza della questione anche sotto il profilo dell’asserita discriminazione.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 11 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES) sollevate, in relazione agli articoli 3 e 77, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trani con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI