Direzione Centrale Pensioni
Roma, 28-02-2012
Messaggio n. 3435
OGGETTO:
Presentazione domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti entro il 1° marzo 2012 per i lavoratori che maturano i requisiti agevolati per l’accesso al trattamento pensionistico dal 1° gennaio 2012 al 31 dicembre 2012. Decreto legislativo n. 67 del 2011, come modificato dalla legge n. 214 del 2011.
1. Premessa
Nel supplemento ordinario n. 276 della Gazzetta Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011, è stata pubblicata la legge 22 dicembre 2011, n. 214, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, avente per oggetto “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”.
Tale legge, all’art. 24, reca disposizioni in materia di trattamenti pensionistici.
I commi 17 e 17 bis del citato articolo 24 hanno modificato, in parte, quanto stabilito dal decreto legislativo 21 aprile 2011, n.67 inmateria di accesso anticipato al pensionamento per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti.
Con messaggi n. 12693 del 10.06.2011 e n. 16762 del 25 agosto 2011 sono stati illustrati i contenuti del citato decreto legislativo n. 67 con riferimento, tra l’altro, alle tipologie di lavori particolarmente faticosi e pesanti, al periodo minimo di svolgimento delle suddette lavorazioni richiesto ai fini del riconoscimento del beneficio pensionistico in questione, alla misura del beneficio pensionistico, alle modalità di presentazione della domanda ed alla relativa documentazione.
Con messaggio n. 22647 del 30 novembre 2011, diramato a seguito della pubblicazione del decreto interministeriale 20 settembre 2011, emanato dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, avente ad oggetto “Accesso anticipato al pensionamento per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti”, sono stati forniti ulteriori chiarimenti condivisi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con nota del 28 novembre 2011, con particolare riguardo al riconoscimento del beneficio per coloro che hanno perfezionato il requisito agevolato di accesso alla pensione entro il 31 dicembre 2011.
Tra le novità normative introdotte dal succitato comma 17 dell’art. 24, si evidenzia la modifica della durata del periodo transitorio previsto dal comma 5 dell’articolo 1 del decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67. Il quadriennio 2008-2012 è stato infatti sostituito dal triennio 2008-2011. Inoltre il medesimo comma17 hamodificato, a partire dall’anno 2012, i requisiti di accesso al beneficio, che verranno illustrati nel presente messaggio.
Nel far rinvio ai chiarimenti forniti con i richiamati messaggi, si forniscono, di seguito, ulteriori indicazioni per la trattazione delle domande presentate entro il 1° marzo del2012da coloro che perfezionano i requisiti a decorrere dal 1° gennaio 2012, tenendo conto delle modifiche introdotte dall’articolo 24 della legge n. 214 del 2011.
Si rammenta che, la domanda intesa ad ottenere il riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti può essere presentata anche da lavoratori dipendenti che abbiano svolto lavori faticosi e pesanti e che raggiungono il diritto alla pensione di anzianità con il cumulo della contribuzione versata in una delle Gestioni Speciali dei lavoratori autonomi.
In tali casi, la riduzione del requisito anagrafico e delle quote deve essere effettuata in funzione dei requisiti previsti dalla legge n. 247 del 2007 per i lavoratori autonomi.
2- Beneficio
2.1 – Lavoratori impegnati in mansioni particolarmente usuranti; lavoratori addetti alla cosiddetta “linea catena”; conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo.
L’art. 24, comma 17, della legge n. 214 del2011 hamodificato il comma 4 dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 67 del 2011 prevedendo che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, i lavoratori di cui al presente punto addetti a svolgere le attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a), c) e d), del decreto legislativo n. 67 del 2011, conseguono il diritto al trattamento pensionistico con i requisiti previsti dalla Tabella B di cui alla legge n. 247 del 2007.
Pertanto, i lavoratori destinatari del beneficio in parola, che maturano i requisiti nel corso del 2012, conseguono il diritto al trattamento pensionistico secondo la tabella che segue.
REQUISITI GENERALI PER LAVORI FATICOSI E PESANTI
REQUISITO CONTRIBUTIVO MINIMO: 35 ANNI
PERIODO DI MATURAZIONE DEI REQUISITI
LAVORATORI DIPENDENTI
LAVORATORI AUTONOMI
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA)
Dal 01.01.2012
al 31.12.2012
60
96
61
97
2.2 – Lavoratori notturni
2.2.1- Lavoratori a turni
Il decreto legislativo n. 67 del 2011, all’art. 1 comma 1 lettera b) numero 1), prevede il beneficio dell’accesso al trattamento pensionistico anticipato per coloro che prestano la loro attività per almeno 6 ore comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino e per un numero minimo di giorni all’anno.
I soggetti che svolgono attività lavorativa nell’orario notturno suindicato per un numero di giorni lavorativi all’anno pari o superiore a 78, a decorrere dal 1° gennaio 2012 conseguono il diritto al trattamento pensionistico con i requisiti previsti dalla Tabella B di cui alla legge n. 247 del 2007.
Il comma 17 dell’art. 24 haintrodotto all’art. 1 del decreto legislativo in esame il comma 6 bis, nel quale è prevista una disciplina differenziata, in ragione dei turni, per i lavoratori che prestano le suddette attività per un numero di giorni lavorativi annui inferiore a 78 e che maturano i requisiti per l'accesso anticipato dal 1° gennaio 2012. Per questi lavoratori il requisito anagrafico e il valore somma di cui alla Tabella B allegata alla legge n. 247 del 2007 sono incrementati rispettivamente di:
due anni e di due unità per coloro che svolgono le predette attività per un numero di giorni lavorativi all'anno da 64 a 71;
un anno e di una unità per coloro che svolgono le predette attività lavorative per un numero di giorni lavorativi all'anno da 72 a 77.
Pertanto, i lavoratori notturni che maturano i requisiti nel corso del 2012, conseguono il diritto al trattamento pensionistico secondo quanto indicato nelle tabelle che seguono.
1) REQUISITI PER LAVORATORI NOTTURNI PER UN NUMERO DI GIORNI LAVORATIVI PARI O SUPERIORE A 78 (Si applicano le regole previste per la generalità dei lavoratori impegnati in mansioni particolarmente faticose e pesanti, come si evince dall’art. 1 comma 4 del D.Lgs. n. 67 del 2011).
REQUISITO CONTRIBUTIVO MINIMO: 35 ANNI
PERIODO DI MATURAZIONE DEI REQUISITI
LAVORATORI DIPENDENTI
LAVORATORI AUTONOMI
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA)
Dal 01.01.2012
al 31.12.2012
60
96
61
97
2) REQUISITI PER LAVORATORI NOTTURNI PER UN NUMERO DI GIORNI LAVORATIVI DA 64 A 71
REQUISITO CONTRIBUTIVO MINIMO: 35 ANNI
PERIODO DI MATURAZIONE DEI REQUISITI
LAVORATORI DIPENDENTI
LAVORATORI AUTONOMI
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA)
Dal 01.01.2012
al 31.12.2012
62
98
63
99
3) REQUISITI PER LAVORATORI NOTTURNI PER UN NUMERO DI GIORNI LAVORATIVI DA 72 A 77
REQUISITO CONTRIBUTIVO MINIMO: 35 ANNI
PERIODO DI MATURAZIONE DEI REQUISITI
LAVORATORI DIPENDENTI
LAVORATORI AUTONOMI
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA)
Dal 01.01.2012
al 31.12.2012
61
97
62
98
2.2.2- Lavoratori notturni che prestano attività per periodi di durata pari all’intero anno lavorativo.
Il decreto legislativo n. 67 del 2011all’art. 1 comma 1 lettera b) numero 2) contempla, tra i soggetti destinatari del beneficio in esame, i lavoratori che prestano la loro attività per almeno tre ore nell’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino per periodi di lavoro di durata pari all’intero anno lavorativo.
Tali soggetti, a decorrere dal 1° gennaio 2012, conseguono il diritto al trattamento pensionistico con i requisiti di cui alla Tabella B della legge n. 247 del 2007.
REQUISITO CONTRIBUTIVO MINIMO: 35 ANNI
PERIODO DI MATURAZIONE DEI REQUISITI
LAVORATORI DIPENDENTI
LAVORATORI AUTONOMI
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA
ETA’ ANAGRAFICA
QUOTA (SOMMA ETA’ ANAGRAFICA
E ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA)
Dal 01.01.2012
al 31.12.2012
60
96
61
97
2.2.3- Precisazioni relative ai lavoratori notturni.
Il comma 7 dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 67 del 2011 prevede che, per i lavoratori che prestano attività per un numero di giorni lavorativi all’anno sia da64 a71 sia da72 a77, si applica il beneficio previsto per l’attività svolta per il periodo di tempo più lungo nell’ambito del periodo dei 7 anni negli ultimi 10 anni di attività lavorativa.
Il medesimo comma 7 disciplina, altresì, i casi in cui il lavoratore notturno che presta attività in turni per un numero di giorni inferiori a 78 l’anno, abbia svolto anche una o più delle seguenti attività:
lavoratori impegnati in mansioni particolarmente usuranti;
lavoratori addetti alla cosiddetta “linea catena”;
conducenti di veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo.
lavoratori che svolgono attività notturna per un numero di giorni all’anno pari o superiore a 78;
lavoratori notturni che prestano attività per almeno tre ore nell’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino per periodi di durata pari all’intero anno lavorativo.
In quest’ultimo caso si applica il beneficio previsto per i lavoratori che abbiano prestato attività in turni inferiori a 78 giorni l’anno solo se, prendendo in considerazione il periodo complessivo in cui sono state svolte le predette attività, il lavoro da turnista con meno di 78 notti sia stato svolto per un periodo superiore alla metà.
3- Regime delle decorrenze
Il comma 17 bis dell’art. 24 della citata legge n. 214 del 2011 dispone che, ai trattamenti pensionistici da liquidare ai lavoratori destinatari del beneficio in esame, continuano ad applicarsi le cosiddette “finestre mobili” di cui all’articolo 12, comma 2 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122. Pertanto la prima decorrenza utile è fissata:
trascorsi 12 mesi dalla data di maturazione dei requisiti, per coloro che accedono al trattamento pensionistico a carico di una delle gestioni lavoratori dipendenti;
trascorsi 18 mesi dal perfezionamento dei requisiti, per i lavoratori che accedono al trattamento pensionistico a carico della gestione speciale lavoratori autonomi.
Si rammenta che, ai sensi dell’art. 2 comma 4 del decreto legislativo n. 67 del 2011, la presentazione della domanda oltre il termine del 1° marzo 2012 comporta, in caso di accertamento positivo dei requisiti, il differimento della decorrenza del trattamento pensionistico anticipato pari a:
un mese, per un ritardo della presentazione compreso in un mese;
due mesi, per un ritardo della presentazione compreso tra un mese e due mesi;
tre mesi per un ritardo della presentazione di tre mesi ed oltre.
4- Presentazione della domanda di riconoscimento del beneficio entro il 1° marzo 2012 e relativa documentazione
La domanda di accesso al beneficio di cui all'art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 67 del 2011 (disponibile sul sito internet www.inps.it nella sezione moduli) e la relativa documentazione devono essere presentate alla competente struttura territoriale dell’istituto entro il 1° marzo dell'anno di perfezionamento dei requisiti agevolati, qualora tali requisiti siano maturati a decorrere dal 1° gennaio 2012.
Pertanto, i lavoratori che maturano i requisiti agevolati nel corso dell’anno 2012 devono presentare la domanda e la necessaria documentazione entro il 1° marzo 2012.
Si richiamano anche le indicazioni di cui all’ultimo capoverso della premessa del presente messaggio.
Si ribadisce che la documentazione elencata nella Tabella A del decreto interministeriale del 20 settembre 2011 (allegata al messaggio n. 16762 del 25.08.2011), prodotta dal soggetto interessato a corredo della domanda, deve risalire all’epoca in cui sono state svolte le attività faticose e pesanti. Conseguentemente, non sono valide le dichiarazioni “ora per allora” rese dal datore di lavoro privato.
4.1 – Presentazione della domanda da parte degli iscritti agli enti soppressi Inpdap e Enpals
Come è noto la legge 22 dicembre 2011, n. 214, di conversione del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, all’art. 21, comma1, hadisposto la soppressione dell’INPDAP e dell’ENPALS dal 1° gennaio 2012, con attribuzione delle relative funzioni all’INPS che succede in tutti i rapporti attivi e passivi degli Enti soppressi.
In attesa di successive indicazioni che saranno diramate a seguito dell’emanazione dei decreti interministeriali di natura non regolamentare previsti dal comma 2 del citato art. 21, le domande di accesso al beneficio devono essere presentate, secondo le consuete modalità, dagli iscritti degli enti soppressi presso le rispettive strutture territoriali.
5 – Procedimento accertativo
Ai fini del riconoscimento del beneficio in questione, la sede dell’Istituto territorialmente competente ad istruire la domanda deve accertare, in base all’esame della documentazione minima di cui alla citata Tabella A, che il soggetto interessato abbia svolto lavoro faticoso e pesante nel periodo indicato dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 67 del 2011 pari, per le pensioni da liquidare in favore dei lavoratori che perfezionano i requisiti entro il 31 dicembre 2012, ad almeno 7 anni, compreso l’anno di maturazione dei requisiti, negli ultimi dieci anni di attività lavorativa.
Nel caso in cui l’interessato presenti domanda entro il 1° marzo 2012, senza aver ancora perfezionato i requisiti prescritti dal decreto legislativo n. 67 del 2011, ma sia nelle condizioni per poterli maturare entro il 31 dicembre 2012, l’Istituto entro il 30 ottobre 2012 comunicherà l’accoglimento della domanda con riserva. L’efficacia del provvedimento di accoglimento resta infatti subordinata al successivo accertamento del perfezionamento dei requisiti entro il 31 dicembre 2012.
6 - Comunicazione dell’ente previdenziale al soggetto interessato
Come previsto dall’art. 4, comma 1, del citato decreto interministeriale del 20 settembre2011, inesito alla domanda di accesso al beneficio di cui al decreto legislativo n. 67 del2011, l'ente previdenziale comunica al lavoratore interessato, entro il 30 ottobre 2012:
l'accoglimento della domanda, con indicazione della prima decorrenza utile del trattamento pensionistico, qualora sia accertato il possesso dei requisiti relativi allo svolgimento delle lavorazioni faticose e pesanti e sia verificata la sussistenza della relativa copertura finanziaria;
l'accertamento del possesso dei requisiti relativi allo svolgimento delle lavorazioni faticose e pesanti, con differimento della decorrenza del trattamento pensionistico in ragione dell'insufficiente copertura finanziaria; in tal caso, la prima data utile per l'accesso al pensionamento viene indicata con successiva comunicazione in esito al monitoraggio di cui all'art. 3 del citato decreto interministeriale (sul monitoraggio, v. punto 7 del messaggio n. 022647 del 30.11.2011);
il rigetto della domanda, qualora non sia accertato il possesso dei requisiti relativi allo svolgimento delle lavorazioni faticose e pesanti.
7 - Presentazione domanda di pensione e riconoscimento del beneficio
L’accesso anticipato al trattamento pensionistico è riconosciuto a seguito di presentazione della domanda di pensionamento, il cui accoglimento è subordinato alla sussistenza di ogni altra condizione di legge.
In sede di lavorazione della domanda di pensione, e ai fini dell’accoglimento della stessa, verranno esaminati i casi in cui l’accoglimento della domanda di accesso al beneficio è avvenuto con riserva di accertamento del perfezionamento dei requisiti entro il 31 dicembre 2012.
A tal fine, il lavoratore può fornire ulteriore documentazione ad integrazione di quella già prodotta a corredo della domanda di accesso al beneficio.
Nel caso in cui, dalla documentazione eventualmente prodotta dall’interessato o dai dati di archivio in possesso dell’Istituto, non risultino perfezionati i requisiti per l’accesso al beneficio in parola, la domanda di pensione con riconoscimento del beneficio di accesso anticipato non può essere accolta.
Il Direttore Generale
Nori
mercoledì 29 febbraio 2012
Presentazione domande di riconoscimento dello svolgimento di lavori particolarmente faticosi e pesanti entro il 1° marzo 2012 per i lavoratori che maturano i requisiti agevolati per l’accesso al trattamento pensionistico dal 1° gennaio 2012 al 31 dicembre 2012. Decreto legislativo n. 67 del 2011, come modificato dalla legge n. 214 del 2011.
sabato 25 febbraio 2012
Bastonate dal Giudice le Organizzazioni Sindacali SLP/CISL,UIL/POST,CONFSAL/COMUNICAZIONI e UGL/COMUNICAZIONI. - P.Q.M. "Il Giudice rigetta il ricorso e condanna le associazioni sindacali ricorrenti, in persona dei rispettivi legali rappresentanti protempore".
TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA QUARTA SEZIONE LAVORO
Il Giudice del lavoro Francesco Centofanti,
nel procedimento ex art. 28 Stato lav., iscritto al n° 49038(Il
r.a.c.c., promosso con ricorso depositato il 28.12.2011 da
SLP CIeL, UIL Poste, CONFSAL Comunicazioni, UGL Comunicazioni, segreterie territoriali e provinciali, in persona dei legali rappresentanti pro-tempore (avv. Antonio Vallebona) nei confronti di POSTE ITALIANE s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore (avv. Arturo Maresca)
Letti il ricorso e la memoria difensiva, sentite le parti ed a scioglimento della riserva di cui al verbale dell'udienza 16 febbraio 2012
OSSERVA:
1. Le associazioni sindacali in epigrafe agiscono, ex art. 28 Stato lav., denunziando l'antisindacalità, ed invocando la repressione giudiziale, della condotta tenuta da Poste Italiane s.p.a., nell'ambito della fase di confronto ex art. 2 letto A) CCNL di settore (avviata il 9.11.2011) riguardante il processo di riorganizzazione dei Mercati Privati, consistita nel rifiuto datoriale di istituire con le suddette associazioni un "tavolo separato" di confronto rispetto a SLC CGIL.
Le associazioni ricorrenti avevano motivato la loro richiesta di "tavolo separato" adducendo l'esistenza di pregressi recenti contrasti insorti tra le medesime ed il sindacato CGIL, di gravità tale, a causa dei comportamenti scorretti imputabili a quest'ultimo, da impedire alle prime di condividere con esso la medesima sede di confronto.
2. L'art. 2 letto A) CCNL cito riconduce alla contrattazione di livello nazionale "la gestione delle conseguenze sul piano sociale dell'attuazione dei processi di riorganizzazione e/o ristrutturazione e/o trasformazione aziendale che abbiano ricadute sulle condizioni di lavoro (..1; prevede, a tal fme, che l'Azienda fornisca alle OO.SS. nazionali stipulanti il CCNL una "informazione preventiva,
l
con indicazione contestuale della data del1'avvio del confronto, che
sarà finalizzato a ricercare possibili soluzioni per govemare gli
effetti sociali di cui saprei'; stabilisce tempi stringenti (12 giorni
lavorativi) per lo svolgimento e l'esaurimento della fase di
confronto, vietando iniziative unilaterali nelle more e specificando
che, in difetto di esito positivo del confronto, le parti potranno
assumere"le proprie autonome detenninazioni".
3. Le norme collettive, dopo aver sancito che alla fase di
confronto con la parte datoriale partecipino le delegazioni
nazionali delle OO.SS. stipulanti il CCNL, non disciplinano
ulteriormente le modalità di svolgimento del confronto medesimo;
non prescrivono che esso debba svolgersi in un contesto unitario
(a "tavolo unico" con tutte le delegazioni sindacali), ma certo
neppure si curano di garantire il diritto di chicchessia a
"parcellizzare" la fase di confronto, con l'istituzione, per iniziativa
datoriale o a richiesta sindacale, di "tavoli separati".
10 spirito della disciplina convenzionale è però, se=a dubbio, quello di facilitare la ricerca e l'adozione di soluzioni condivise tra la rappresentanza datoriale e quelle dei lavoratori, previa pregiudiziale individuazione del maggior grado possibile di convergenza nell'ambito della stessa componente sindacale. Ciò a seguito di un dialogo, sia pure serrato, tale da consentire l'auspicabile apertura all'altrui veduta, l'evoluzione delle posizioni, l'eventuale adozione di scelte comuni, o comunque espressive del più ampio possibile consenso, tra le parti contrapposte ed in seno alla parte "plurale" in cui risultano organizzate le maestra=e.
Se così è, l'impostazione datoriale, tesa a privilegiare la natura "congiunta" del confronto, non può essere tacciata di rappresentare un'esecuzione contraria a buona fede della clausola del contratto collettivo; apparendo essa semmai, al contrario, più conforme alla ratio della clausola stessa ed alla sua esegesi sistematica.
4. La clausola implica, come visto, non certo un vincolo di risultato, e senz'altro però un vincolo di metodo: il dialogo, in vista del possibile sbocco favorevole, tanto più proficuo, e potenzialmente foriero di un tale esito, se coralmente partecipato.
In antitesi concettuale con tale metodo voluto dal CCNL appare, dunque, la pretesa di taluni sindacati, fosse anche la loro parte maggioritaria, di sottrarsi all'unitarietà del confronto a motivo di divisioni e lacerazioni interne, in qualunque modo indottesi, che peraltro solo un approccio congiunto può sperare di avviare a ricomposizione.
Né tale pretesa appare meritevole di tutela nell'attuale sistema delle relazioni industriali, ispirato al pluralismo ed alla pari dignità di tutti i protagonisti delle medesime, principi che semmai impongono di privilegiare interpretazioni che, nelle dinamiche
2
antagonistiche
della
dialettica
sindacale,
evitino
la
marginalizzazione delle minoranze.
Mentre
non
si
vede
quale
pregiudizio
possa
derivare
alle
associazioni
sindacali ricorrenti
dal
sedere
all'unico
tavolo
con
l'altro sindacato, essendo ciascuna rappresentanza libera di esporre ed argomentare il proprio punto di vista, e non essendovi alcun obbligo di presa di posizione finale comune; appare evidente che il rifiuto aprioristico del comune confronto è in grado di ridurre fortemente, già in partenza, se non di minare del tutto, le chances di addivenire con l'azienda a soluzioni concordate, anche parziali, che è l'obiettivo della clausola pattizia.
5. Un diritto "individuale" al confronto ex art. 2 letto A) CCNL, inteso quale diritto di ciascuna associazione sindacale ad avere una sede esclusiva a tale scopo -il cui esercizio potrebbe portare, al limite, alla necessità di istituire tanti "tavoli" quante sono le rappresentanze non omogenee -, non può, dunque, ricavarsi dalla disciplina convenzionale in esame, tesa viceversa a valorizzare l'unitarietà del processo di confronto, in vista dell'obiettivo già ricordato.
Tale preteso diritto finirebbe, al contrario, per incidere sull'organizzazione
datoriale, oltre i limiti ammessi dallo statuto. E, in ogni caso, la tutela invocata fuoriesce dai mezzi offerti da quest'ultimo.
L'art. 28 -ricorda Casso 2857(04 -"è finalizzato a garantire le prerogative del sindacato nelle ipotesi di conflittualità fra collettività dei lavoratori (o dei loro rappresentanti sindacali) e l'imprenditore, non potendo invece la norma statutaria incidere sulla libertà organizzativa di quest'ultimo a seguito di pretese degli organismi sindacali scaturenti da una conjZittualità sorta all'interno degli stessi organismi; pertanto, non concretizza una condotta antisindacale il comportamento dell'imprenditore che (...) intenda condurre le trattative con queste ultime, su questioni attinenti alla contrattazione collettiva, in forma congiunta, rifiutando la richiesta di alcune di esse di essere sentite, invece, a tavoli separati".
Né la prospettiva muta -alla luce di quanto osservato -per il fatto che, nella presente vicenda, a richiedere "il tavolo separato" fossero i sindacati "maggioritari".
6. Segue la reiezione del ricorso, assorbita ogni altra questione.
Spese secondo soccombenza, liquidate come da dispositivo.
L'art. 9 D.L. 1(12, in corso di conversione, stabilisce quanto
segue:
"1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico.
2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante (...r.
3
In assenza di disposizioni transitorie, si deve ritenere lo ius superveniens di immediata applicazione. Tuttavia, in attesa che si addivenga all'individuazione ministeriale dei nuovi parametri, appare corretto, per identità di ratio, far riferimento alle tariffe sino ad oggi vigenti, esse stesse approvate con decreto ministeriale.
P.Q.M.
Il Giudice rigetta il ricorso e condanna le associazioni sindacali ricorrenti, in persona dei rispettivi legali rappresentanti protempore,
al pagamento, in favore di Poste Italiane s.p.a., delle spese di lite, liquidate in complessivi euro 2.000,00, per diritti ed onorario, oltre spese generali IVA e CPA come per legge.
Cosi deciso in Roma il 20 febbraio 2012
IL GIUDICE
Francesco Centofanti
Il Giudice del lavoro Francesco Centofanti,
nel procedimento ex art. 28 Stato lav., iscritto al n° 49038(Il
r.a.c.c., promosso con ricorso depositato il 28.12.2011 da
SLP CIeL, UIL Poste, CONFSAL Comunicazioni, UGL Comunicazioni, segreterie territoriali e provinciali, in persona dei legali rappresentanti pro-tempore (avv. Antonio Vallebona) nei confronti di POSTE ITALIANE s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore (avv. Arturo Maresca)
Letti il ricorso e la memoria difensiva, sentite le parti ed a scioglimento della riserva di cui al verbale dell'udienza 16 febbraio 2012
OSSERVA:
1. Le associazioni sindacali in epigrafe agiscono, ex art. 28 Stato lav., denunziando l'antisindacalità, ed invocando la repressione giudiziale, della condotta tenuta da Poste Italiane s.p.a., nell'ambito della fase di confronto ex art. 2 letto A) CCNL di settore (avviata il 9.11.2011) riguardante il processo di riorganizzazione dei Mercati Privati, consistita nel rifiuto datoriale di istituire con le suddette associazioni un "tavolo separato" di confronto rispetto a SLC CGIL.
Le associazioni ricorrenti avevano motivato la loro richiesta di "tavolo separato" adducendo l'esistenza di pregressi recenti contrasti insorti tra le medesime ed il sindacato CGIL, di gravità tale, a causa dei comportamenti scorretti imputabili a quest'ultimo, da impedire alle prime di condividere con esso la medesima sede di confronto.
2. L'art. 2 letto A) CCNL cito riconduce alla contrattazione di livello nazionale "la gestione delle conseguenze sul piano sociale dell'attuazione dei processi di riorganizzazione e/o ristrutturazione e/o trasformazione aziendale che abbiano ricadute sulle condizioni di lavoro (..1; prevede, a tal fme, che l'Azienda fornisca alle OO.SS. nazionali stipulanti il CCNL una "informazione preventiva,
l
con indicazione contestuale della data del1'avvio del confronto, che
sarà finalizzato a ricercare possibili soluzioni per govemare gli
effetti sociali di cui saprei'; stabilisce tempi stringenti (12 giorni
lavorativi) per lo svolgimento e l'esaurimento della fase di
confronto, vietando iniziative unilaterali nelle more e specificando
che, in difetto di esito positivo del confronto, le parti potranno
assumere"le proprie autonome detenninazioni".
3. Le norme collettive, dopo aver sancito che alla fase di
confronto con la parte datoriale partecipino le delegazioni
nazionali delle OO.SS. stipulanti il CCNL, non disciplinano
ulteriormente le modalità di svolgimento del confronto medesimo;
non prescrivono che esso debba svolgersi in un contesto unitario
(a "tavolo unico" con tutte le delegazioni sindacali), ma certo
neppure si curano di garantire il diritto di chicchessia a
"parcellizzare" la fase di confronto, con l'istituzione, per iniziativa
datoriale o a richiesta sindacale, di "tavoli separati".
10 spirito della disciplina convenzionale è però, se=a dubbio, quello di facilitare la ricerca e l'adozione di soluzioni condivise tra la rappresentanza datoriale e quelle dei lavoratori, previa pregiudiziale individuazione del maggior grado possibile di convergenza nell'ambito della stessa componente sindacale. Ciò a seguito di un dialogo, sia pure serrato, tale da consentire l'auspicabile apertura all'altrui veduta, l'evoluzione delle posizioni, l'eventuale adozione di scelte comuni, o comunque espressive del più ampio possibile consenso, tra le parti contrapposte ed in seno alla parte "plurale" in cui risultano organizzate le maestra=e.
Se così è, l'impostazione datoriale, tesa a privilegiare la natura "congiunta" del confronto, non può essere tacciata di rappresentare un'esecuzione contraria a buona fede della clausola del contratto collettivo; apparendo essa semmai, al contrario, più conforme alla ratio della clausola stessa ed alla sua esegesi sistematica.
4. La clausola implica, come visto, non certo un vincolo di risultato, e senz'altro però un vincolo di metodo: il dialogo, in vista del possibile sbocco favorevole, tanto più proficuo, e potenzialmente foriero di un tale esito, se coralmente partecipato.
In antitesi concettuale con tale metodo voluto dal CCNL appare, dunque, la pretesa di taluni sindacati, fosse anche la loro parte maggioritaria, di sottrarsi all'unitarietà del confronto a motivo di divisioni e lacerazioni interne, in qualunque modo indottesi, che peraltro solo un approccio congiunto può sperare di avviare a ricomposizione.
Né tale pretesa appare meritevole di tutela nell'attuale sistema delle relazioni industriali, ispirato al pluralismo ed alla pari dignità di tutti i protagonisti delle medesime, principi che semmai impongono di privilegiare interpretazioni che, nelle dinamiche
2
antagonistiche
della
dialettica
sindacale,
evitino
la
marginalizzazione delle minoranze.
Mentre
non
si
vede
quale
pregiudizio
possa
derivare
alle
associazioni
sindacali ricorrenti
dal
sedere
all'unico
tavolo
con
l'altro sindacato, essendo ciascuna rappresentanza libera di esporre ed argomentare il proprio punto di vista, e non essendovi alcun obbligo di presa di posizione finale comune; appare evidente che il rifiuto aprioristico del comune confronto è in grado di ridurre fortemente, già in partenza, se non di minare del tutto, le chances di addivenire con l'azienda a soluzioni concordate, anche parziali, che è l'obiettivo della clausola pattizia.
5. Un diritto "individuale" al confronto ex art. 2 letto A) CCNL, inteso quale diritto di ciascuna associazione sindacale ad avere una sede esclusiva a tale scopo -il cui esercizio potrebbe portare, al limite, alla necessità di istituire tanti "tavoli" quante sono le rappresentanze non omogenee -, non può, dunque, ricavarsi dalla disciplina convenzionale in esame, tesa viceversa a valorizzare l'unitarietà del processo di confronto, in vista dell'obiettivo già ricordato.
Tale preteso diritto finirebbe, al contrario, per incidere sull'organizzazione
datoriale, oltre i limiti ammessi dallo statuto. E, in ogni caso, la tutela invocata fuoriesce dai mezzi offerti da quest'ultimo.
L'art. 28 -ricorda Casso 2857(04 -"è finalizzato a garantire le prerogative del sindacato nelle ipotesi di conflittualità fra collettività dei lavoratori (o dei loro rappresentanti sindacali) e l'imprenditore, non potendo invece la norma statutaria incidere sulla libertà organizzativa di quest'ultimo a seguito di pretese degli organismi sindacali scaturenti da una conjZittualità sorta all'interno degli stessi organismi; pertanto, non concretizza una condotta antisindacale il comportamento dell'imprenditore che (...) intenda condurre le trattative con queste ultime, su questioni attinenti alla contrattazione collettiva, in forma congiunta, rifiutando la richiesta di alcune di esse di essere sentite, invece, a tavoli separati".
Né la prospettiva muta -alla luce di quanto osservato -per il fatto che, nella presente vicenda, a richiedere "il tavolo separato" fossero i sindacati "maggioritari".
6. Segue la reiezione del ricorso, assorbita ogni altra questione.
Spese secondo soccombenza, liquidate come da dispositivo.
L'art. 9 D.L. 1(12, in corso di conversione, stabilisce quanto
segue:
"1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico.
2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante (...r.
3
In assenza di disposizioni transitorie, si deve ritenere lo ius superveniens di immediata applicazione. Tuttavia, in attesa che si addivenga all'individuazione ministeriale dei nuovi parametri, appare corretto, per identità di ratio, far riferimento alle tariffe sino ad oggi vigenti, esse stesse approvate con decreto ministeriale.
P.Q.M.
Il Giudice rigetta il ricorso e condanna le associazioni sindacali ricorrenti, in persona dei rispettivi legali rappresentanti protempore,
al pagamento, in favore di Poste Italiane s.p.a., delle spese di lite, liquidate in complessivi euro 2.000,00, per diritti ed onorario, oltre spese generali IVA e CPA come per legge.
Cosi deciso in Roma il 20 febbraio 2012
IL GIUDICE
Francesco Centofanti
mercoledì 15 febbraio 2012
INTERPELLO N.39/2011 DEL MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI SU IPOTESI DI LEGITTIMO DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI
INTERPELLO N. 39/2011
Roma, 21 settembre 2011
Direzione generale per l’Attività Ispettiva
Prot. 37/0001044
Al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei
Consulenti del Lavoro
Via Cristoforo Colombo 456
00145 Roma
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – ipotesi di legittimo demansionamento del lavoratore –
art. 56, D.Lgs. n. 151/2001, diritto al rientro e conservazione del posto di lavoro e art. 5, comma 5,
L. n. 236/1993, contratti di solidarietà c.d. “difensivi”.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha avanzato richiesta di
interpello per conoscere il parere di questa Direzione generale in merito ad un duplice ordine di
questioni.
L’istante chiede, in primo luogo, precisazioni circa la corretta interpretazione del disposto di
cui all’art. 56 del D.Lgs. n. 151/2001, con riferimento alle modalità di esercizio del diritto della
lavoratrice al rientro e alla conservazione del posto di lavoro successivamente alla fruizione del
periodo di astensione per maternità.
In particolare, viene sollevata la problematica concernente la possibilità di considerare
legittimo l’accordo intercorso tra la medesima lavoratrice, rientrante in servizio prima del
compimento di un anno di età del bambino, e il datore di lavoro, avente per oggetto l’assegnazione
a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della retribuzione; tale accordo, volto alla
salvaguardia dell’interesse prevalente alla conservazione del posto di lavoro, troverebbe la propria
ratio giustificatrice nell’oggettiva impossibilità di assegnare la lavoratrice alle mansioni da ultimo
svolte, ovvero a mansioni equivalenti, a causa della soppressione della funzione o reparto cui la
stessa era adibita anteriormente all’astensione.
Si chiede, inoltre, in caso di soluzione negativa al quesito proposto, di quali diversi strumenti
possa fruire il datore di lavoro, qualora non sussistano alternative per l’attribuzione alla dipendente
di mansioni analoghe a quelle originariamente espletate.
2
La seconda questione sottoposta all’attenzione di questa Amministrazione trae, invece,
origine dal peculiare contesto di crisi aziendale, a fronte del quale il Legislatore predispone lo
strumento dei contratti di solidarietà difensivi disciplinati dall’art. 5, comma 5, L. n. 236/1993.
Nello specifico, l’interpellante chiede se, nell’eventualità della soppressione del reparto o
della funzione cui era addetto il lavoratore in solidarietà ed in caso di impossibilità di assegnazione
a mansioni equivalenti, nonchè a seguito del rifiuto opposto dal lavoratore medesimo alla
sottoscrizione di un accordo per l’adibizione a mansioni di grado inferiore, sia o meno consentito
all’azienda di continuare a fruire del contributo di solidarietà.
In altri termini, si pone in dubbio se l’eventuale licenziamento scaturente dalla situazione
innanzi descritta (soppressione dell’originaria funzione, proposta del datore di lavoro di adibizione
a mansioni inferiori con finalità di salvaguardia della posizione lavorativa, rifiuto opposto dal
lavoratore alla stipulazione del contratto in tal modo configurato), produca effetti negativi in ordine
all’erogazione dei contributi integrativi riconosciuti per i contratti di solidarietà.
Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale della Tutela delle Condizioni di
Lavoro e della Direzione generale degli Ammortizzatori sociali e I.O., si rappresenta quanto segue.
In via preliminare, è necessario inquadrare la problematica sottesa ad entrambi i quesiti nella
cornice giuridica di cui all’art. 2103 c.c.
Come è noto la mobilità delle mansioni assegnate al lavoratore può svilupparsi in direzione
orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti ovvero verticale nell’ipotesi di
assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola preclusa la mobilità “verso il basso”.
Il Legislatore, in realtà, non fornisce una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni,
lasciando, dunque, alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di individuare gli
indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o meno rispettati i limiti fissati dall'art. 2103
c.c., ai sensi del quale “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o
a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione
(…) ogni patto contrario è nullo”.
Il concetto di equivalenza, secondo un consolidato orientamento, presuppone non solo che le
nuove mansioni consentano l’estrinsecazione della professionalità già acquisita, ma altresì che il
lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire quegli incrementi
di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo svolgimento delle mansioni originarie.
Costituisce, inoltre, principio cristallizzato nelle sentenze della Corte di Cassazione, quello in
virtù del quale l’art. 2103 c.c. debba essere interpretato nel senso di considerare di regola illegittima
l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, in ragione dell’espressa sanzione di nullità
3
comminata dalla norma a fronte di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative alla
posizione del lavoratore.
La Suprema Corte tuttavia, nell’ambito di diverse pronunce, ha sostenuto la non applicabilità
della norma in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado
inferiore alle ultime svolte corrisponda all’interesse del lavoratore stesso. In altri termini, si è
osservato che il divieto di demansionamento debba essere interpretato alla stregua della regola
dell’equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l’obiettivo di un’organizzazione
aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione del proprio
posto di lavoro.
Di conseguenza, nelle ipotesi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti
l’esternalizzazione dei servizi ovvero la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o
ristrutturazione aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle
precedentemente espletate, non si pone in contrasto con il dettato codicistico (cfr. Cass., sez. lav.,
n. 6552/2009).
La Corte di Cassazione ha, infatti, espressamente ammesso il patto di demansionamento, con
assegnazione al lavoratore di mansioni e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali era
stato assunto o che aveva successivamente acquisito, esclusivamente al fine di evitare un
licenziamento, considerando prevalente, in tale ipotesi, l’interesse del lavoratore stesso a mantenere
il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c. (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009; n.
21700/2006).
In altri termini, solo in via d’eccezione le parti posso pattuire una diminuzione della
retribuzione nel corso del rapporto di lavoro, nell’ambito di un patto di demansionamento,
laddove questo rappresenti l’extrema ratio per la salvaguardia del posto di lavoro. Ciò appare
verosimile qualora il demansionamento riguardi un congruo numero di lavoratori e dunque una
evidente diminuzione dei costi aziendali. In tale ipotesi, pertanto, l’impossibilità di mantenere il
medesimo livello retributivo dovrà essere rappresentato dal datore di lavoro come elemento in
assenza del quale non è possibile salvaguardare il posto di lavoro,
A conforto delle suddette argomentazioni la giurisprudenza ha puntualmente enucleato i
presupposti indispensabili per considerare legittimo il mutamento in senso peggiorativo delle
mansioni, evidenziando in particolare la necessità che nelle fattispecie concrete si riscontri
l’effettività della situazione pregiudizievole che si vuole scongiurare e soprattutto il consenso del
lavoratore validamente prestato, esente da ogni forma di vizio.
Ciò premesso, fermo restando il divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito
dall’art. 54, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001 – ai sensi del quale “le lavoratrici non possono essere
4
licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal
lavoro (…) nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” – appare opportuno
esaminare i presupposti indispensabili per il corretto esercizio del ius variandi datoriale, nonché
tracciare i confini entro i quali il datore di lavoro possa proporre legittimamente alla lavoratrice
l’attribuzione di mansioni inferiori alle ultime svolte.
In linea con il richiamato orientamento giurisprudenziale, sembra potersi considerare lecito
il patto di demansionamento sottoscritto tra il datore e la lavoratrice madre, rientrante in servizio in
epoca antecedente al compimento di un anno di età del bambino. In tal caso, occorre tuttavia
verificare che il contesto aziendale sia tale che, per fondate e comprovabili esigenze tecniche,
organizzative e produttive o di riduzione di costi, non sussistano alternative diverse per
garantire la conservazione del posto di lavoro e per consentire aliunde l’esercizio delle
mansioni.
Non appare invece lecito, finché dura il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, che
dalla soluzione innanzi prospettata consegua anche la decurtazione della retribuzione, in quanto tale
soluzione appare in contrasto con la finalità della norma che comunque preclude il recesso datoriale
anche nelle ipotesi di soppressione del posto di lavoro (a meno che non si verifichi la cessazione
dell’attività dell’azienda).
Con riferimento al secondo quesito, nella misura in cui l’azienda dovesse adottare, quale
extrema ratio, il provvedimento di licenziamento nei confronti di alcuni lavoratori in solidarietà per
soppressione della funzione, ciò potrebbe comportare il venir meno dell’erogazione dei benefici di
cui all’art. 5, comma 5, L. n. 236/1993, considerando che non sussisterebbero più, in tale ipotesi, le
condizioni in forza delle quali è stata avviata la procedura per la stipulazione dei contratti di
solidarietà stessi.
Inoltre, in ogni caso, qualora il datore di lavoro proponga un demansionamento ai lavoratori
occupati con contratti di solidarietà nell’ambito di reparti soppressi, dovrà evidentemente
predisporre un nuovo piano di risanamento e procedere alla successiva stipulazione di un nuovo
accordo sindacale per la solidarietà.
IL DIRETTORE GENERALE
(f.to Paolo Pennesi)
DP
ADB
INTERPELLO N. 39/2011
Roma, 21 settembre 2011
Direzione generale per l’Attività Ispettiva
Prot. 37/0001044
Al Consiglio Nazionale dell’Ordine dei
Consulenti del Lavoro
Via Cristoforo Colombo 456
00145 Roma
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – ipotesi di legittimo demansionamento del lavoratore –
art. 56, D.Lgs. n. 151/2001, diritto al rientro e conservazione del posto di lavoro e art. 5, comma 5,
L. n. 236/1993, contratti di solidarietà c.d. “difensivi”.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha avanzato richiesta di
interpello per conoscere il parere di questa Direzione generale in merito ad un duplice ordine di
questioni.
L’istante chiede, in primo luogo, precisazioni circa la corretta interpretazione del disposto di
cui all’art. 56 del D.Lgs. n. 151/2001, con riferimento alle modalità di esercizio del diritto della
lavoratrice al rientro e alla conservazione del posto di lavoro successivamente alla fruizione del
periodo di astensione per maternità.
In particolare, viene sollevata la problematica concernente la possibilità di considerare
legittimo l’accordo intercorso tra la medesima lavoratrice, rientrante in servizio prima del
compimento di un anno di età del bambino, e il datore di lavoro, avente per oggetto l’assegnazione
a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della retribuzione; tale accordo, volto alla
salvaguardia dell’interesse prevalente alla conservazione del posto di lavoro, troverebbe la propria
ratio giustificatrice nell’oggettiva impossibilità di assegnare la lavoratrice alle mansioni da ultimo
svolte, ovvero a mansioni equivalenti, a causa della soppressione della funzione o reparto cui la
stessa era adibita anteriormente all’astensione.
Si chiede, inoltre, in caso di soluzione negativa al quesito proposto, di quali diversi strumenti
possa fruire il datore di lavoro, qualora non sussistano alternative per l’attribuzione alla dipendente
di mansioni analoghe a quelle originariamente espletate.
2
La seconda questione sottoposta all’attenzione di questa Amministrazione trae, invece,
origine dal peculiare contesto di crisi aziendale, a fronte del quale il Legislatore predispone lo
strumento dei contratti di solidarietà difensivi disciplinati dall’art. 5, comma 5, L. n. 236/1993.
Nello specifico, l’interpellante chiede se, nell’eventualità della soppressione del reparto o
della funzione cui era addetto il lavoratore in solidarietà ed in caso di impossibilità di assegnazione
a mansioni equivalenti, nonchè a seguito del rifiuto opposto dal lavoratore medesimo alla
sottoscrizione di un accordo per l’adibizione a mansioni di grado inferiore, sia o meno consentito
all’azienda di continuare a fruire del contributo di solidarietà.
In altri termini, si pone in dubbio se l’eventuale licenziamento scaturente dalla situazione
innanzi descritta (soppressione dell’originaria funzione, proposta del datore di lavoro di adibizione
a mansioni inferiori con finalità di salvaguardia della posizione lavorativa, rifiuto opposto dal
lavoratore alla stipulazione del contratto in tal modo configurato), produca effetti negativi in ordine
all’erogazione dei contributi integrativi riconosciuti per i contratti di solidarietà.
Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale della Tutela delle Condizioni di
Lavoro e della Direzione generale degli Ammortizzatori sociali e I.O., si rappresenta quanto segue.
In via preliminare, è necessario inquadrare la problematica sottesa ad entrambi i quesiti nella
cornice giuridica di cui all’art. 2103 c.c.
Come è noto la mobilità delle mansioni assegnate al lavoratore può svilupparsi in direzione
orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti ovvero verticale nell’ipotesi di
assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola preclusa la mobilità “verso il basso”.
Il Legislatore, in realtà, non fornisce una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni,
lasciando, dunque, alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di individuare gli
indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o meno rispettati i limiti fissati dall'art. 2103
c.c., ai sensi del quale “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o
a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione
(…) ogni patto contrario è nullo”.
Il concetto di equivalenza, secondo un consolidato orientamento, presuppone non solo che le
nuove mansioni consentano l’estrinsecazione della professionalità già acquisita, ma altresì che il
lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire quegli incrementi
di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo svolgimento delle mansioni originarie.
Costituisce, inoltre, principio cristallizzato nelle sentenze della Corte di Cassazione, quello in
virtù del quale l’art. 2103 c.c. debba essere interpretato nel senso di considerare di regola illegittima
l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, in ragione dell’espressa sanzione di nullità
3
comminata dalla norma a fronte di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative alla
posizione del lavoratore.
La Suprema Corte tuttavia, nell’ambito di diverse pronunce, ha sostenuto la non applicabilità
della norma in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado
inferiore alle ultime svolte corrisponda all’interesse del lavoratore stesso. In altri termini, si è
osservato che il divieto di demansionamento debba essere interpretato alla stregua della regola
dell’equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l’obiettivo di un’organizzazione
aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione del proprio
posto di lavoro.
Di conseguenza, nelle ipotesi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti
l’esternalizzazione dei servizi ovvero la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o
ristrutturazione aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle
precedentemente espletate, non si pone in contrasto con il dettato codicistico (cfr. Cass., sez. lav.,
n. 6552/2009).
La Corte di Cassazione ha, infatti, espressamente ammesso il patto di demansionamento, con
assegnazione al lavoratore di mansioni e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali era
stato assunto o che aveva successivamente acquisito, esclusivamente al fine di evitare un
licenziamento, considerando prevalente, in tale ipotesi, l’interesse del lavoratore stesso a mantenere
il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c. (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009; n.
21700/2006).
In altri termini, solo in via d’eccezione le parti posso pattuire una diminuzione della
retribuzione nel corso del rapporto di lavoro, nell’ambito di un patto di demansionamento,
laddove questo rappresenti l’extrema ratio per la salvaguardia del posto di lavoro. Ciò appare
verosimile qualora il demansionamento riguardi un congruo numero di lavoratori e dunque una
evidente diminuzione dei costi aziendali. In tale ipotesi, pertanto, l’impossibilità di mantenere il
medesimo livello retributivo dovrà essere rappresentato dal datore di lavoro come elemento in
assenza del quale non è possibile salvaguardare il posto di lavoro,
A conforto delle suddette argomentazioni la giurisprudenza ha puntualmente enucleato i
presupposti indispensabili per considerare legittimo il mutamento in senso peggiorativo delle
mansioni, evidenziando in particolare la necessità che nelle fattispecie concrete si riscontri
l’effettività della situazione pregiudizievole che si vuole scongiurare e soprattutto il consenso del
lavoratore validamente prestato, esente da ogni forma di vizio.
Ciò premesso, fermo restando il divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito
dall’art. 54, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001 – ai sensi del quale “le lavoratrici non possono essere
4
licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal
lavoro (…) nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” – appare opportuno
esaminare i presupposti indispensabili per il corretto esercizio del ius variandi datoriale, nonché
tracciare i confini entro i quali il datore di lavoro possa proporre legittimamente alla lavoratrice
l’attribuzione di mansioni inferiori alle ultime svolte.
In linea con il richiamato orientamento giurisprudenziale, sembra potersi considerare lecito
il patto di demansionamento sottoscritto tra il datore e la lavoratrice madre, rientrante in servizio in
epoca antecedente al compimento di un anno di età del bambino. In tal caso, occorre tuttavia
verificare che il contesto aziendale sia tale che, per fondate e comprovabili esigenze tecniche,
organizzative e produttive o di riduzione di costi, non sussistano alternative diverse per
garantire la conservazione del posto di lavoro e per consentire aliunde l’esercizio delle
mansioni.
Non appare invece lecito, finché dura il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, che
dalla soluzione innanzi prospettata consegua anche la decurtazione della retribuzione, in quanto tale
soluzione appare in contrasto con la finalità della norma che comunque preclude il recesso datoriale
anche nelle ipotesi di soppressione del posto di lavoro (a meno che non si verifichi la cessazione
dell’attività dell’azienda).
Con riferimento al secondo quesito, nella misura in cui l’azienda dovesse adottare, quale
extrema ratio, il provvedimento di licenziamento nei confronti di alcuni lavoratori in solidarietà per
soppressione della funzione, ciò potrebbe comportare il venir meno dell’erogazione dei benefici di
cui all’art. 5, comma 5, L. n. 236/1993, considerando che non sussisterebbero più, in tale ipotesi, le
condizioni in forza delle quali è stata avviata la procedura per la stipulazione dei contratti di
solidarietà stessi.
Inoltre, in ogni caso, qualora il datore di lavoro proponga un demansionamento ai lavoratori
occupati con contratti di solidarietà nell’ambito di reparti soppressi, dovrà evidentemente
predisporre un nuovo piano di risanamento e procedere alla successiva stipulazione di un nuovo
accordo sindacale per la solidarietà.
IL DIRETTORE GENERALE
(f.to Paolo Pennesi)
DP
ADB
giovedì 9 febbraio 2012
Senato della Repubblica: Interrogazione al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali per sapere se il Ministro non ritenga opportuno promuovere l'eliminazione del limite dei 24 mesi, fermo restando che la firma dell'accordo di dimissioni deve comunque essere avvenuta prima dell'entrata in vigore della legge in modo da estendere a tutti la stessa garanzia in nome del principio dell'equità a cui il Governo dice di ispirarsi.
Atto Senato
Interrogazione a risposta orale 3-02629
presentata da
LUCIANA SBARBATI
martedì 7 febbraio 2012, seduta n.670
SBARBATI, AMATI, MAGISTRELLI - Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali - Premesso che:
negli anni 2009-2011 circa 5.000 donne di Poste italiane nonché di altre aziende, proprio su invito dell'azienda stessa, hanno lasciato il lavoro con la formula dell'esodo incentivato;
l'incentivo doveva coprire il periodo intercorrente tra l'uscita dal lavoro e la prima rata di pensione: ad esempio, vi ricadeva chi, nata nel 1953, usciva dal lavoro il 31 dicembre 2010 con maturazione dei requisiti per la pensione nel 2013 (60 anni) e con decorrenza della pensione dal 2014 dopo 12 mesi di finestra;
nel dicembre 2011 è stata cambiata l'età per la pensione di vecchiaia per le donne che, nel caso di specie, passa dal 2014 al 2020;
tutti coloro che hanno utilizzato l'esodo incentivante si trovano in questa spiacevole situazione: senza stipendio e senza pensione, situazione che per le famiglie monoreddito è una vera tragedia;
il presidente Monti, nel discorso di fine anno, ha dichiarato che non avrebbe lasciato senza protezione alcuna le migliaia di ex lavoratori che si trovavano in questa situazione;
durante la discussione alla Camera dell'Atto Camera 4865 di conversione in legge del decreto milleproroghe (decreto-legge n. 216 del 2011), nei giorni scorsi, è stato approvato un emendamento che mette al riparo solo una parte di coloro che vengono definiti "esodati" e cioè solamente quelli che hanno maturato il diritto a riscuotere la pensione entro 24 mesi dalla data di approvazione del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e che, attraverso la finestra dei 12 mesi, hanno maturato il diritto entro il 2012;
con questo emendamento sono stati garantiti non più del 30-40 per cento dei lavoratori in questione, con una profonda ingiustizia nei confronti dell'altro 60-70 per cento,
si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga opportuno promuovere l'eliminazione del limite dei 24 mesi, fermo restando che la firma dell'accordo di dimissioni deve comunque essere avvenuta prima dell'entrata in vigore della legge in modo da estendere a tutti la stessa garanzia in nome del principio dell'equità a cui il Governo dice di ispirarsi.
(3-02629)
Interrogazione a risposta orale 3-02629
presentata da
LUCIANA SBARBATI
martedì 7 febbraio 2012, seduta n.670
SBARBATI, AMATI, MAGISTRELLI - Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali - Premesso che:
negli anni 2009-2011 circa 5.000 donne di Poste italiane nonché di altre aziende, proprio su invito dell'azienda stessa, hanno lasciato il lavoro con la formula dell'esodo incentivato;
l'incentivo doveva coprire il periodo intercorrente tra l'uscita dal lavoro e la prima rata di pensione: ad esempio, vi ricadeva chi, nata nel 1953, usciva dal lavoro il 31 dicembre 2010 con maturazione dei requisiti per la pensione nel 2013 (60 anni) e con decorrenza della pensione dal 2014 dopo 12 mesi di finestra;
nel dicembre 2011 è stata cambiata l'età per la pensione di vecchiaia per le donne che, nel caso di specie, passa dal 2014 al 2020;
tutti coloro che hanno utilizzato l'esodo incentivante si trovano in questa spiacevole situazione: senza stipendio e senza pensione, situazione che per le famiglie monoreddito è una vera tragedia;
il presidente Monti, nel discorso di fine anno, ha dichiarato che non avrebbe lasciato senza protezione alcuna le migliaia di ex lavoratori che si trovavano in questa situazione;
durante la discussione alla Camera dell'Atto Camera 4865 di conversione in legge del decreto milleproroghe (decreto-legge n. 216 del 2011), nei giorni scorsi, è stato approvato un emendamento che mette al riparo solo una parte di coloro che vengono definiti "esodati" e cioè solamente quelli che hanno maturato il diritto a riscuotere la pensione entro 24 mesi dalla data di approvazione del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e che, attraverso la finestra dei 12 mesi, hanno maturato il diritto entro il 2012;
con questo emendamento sono stati garantiti non più del 30-40 per cento dei lavoratori in questione, con una profonda ingiustizia nei confronti dell'altro 60-70 per cento,
si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga opportuno promuovere l'eliminazione del limite dei 24 mesi, fermo restando che la firma dell'accordo di dimissioni deve comunque essere avvenuta prima dell'entrata in vigore della legge in modo da estendere a tutti la stessa garanzia in nome del principio dell'equità a cui il Governo dice di ispirarsi.
(3-02629)
sabato 4 febbraio 2012
Onerosità nelle operazioni di ricongiunzione o trasferimento dei contributi da Fondi esclusivi o sostitutivi verso il regime generale dell'Assicurazione Generale - Interrogazione il 2 febbraio 2012 dell' On. Sabina Rossa al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali
Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-14749
presentata da
SABINA ROSSA
giovedì 2 febbraio 2012, seduta n.582
ROSSA e TULLO. - Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali.- Per sapere - premesso che:
il comma 12-septies dell'articolo 12 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) ha introdotto l'onerosità nelle operazioni di ricongiunzione o trasferimento dei contributi da Fondi esclusivi o sostitutivi verso il regime generale dell'Assicurazione generale;
i lavoratori che hanno avuto una vita lavorativa svolta in aziende private e/o pubbliche diverse, oggi per poter accedere alla propria pensione per la quale hanno sempre versato regolarmente i contributi dovuti, devono pagare ulteriori oneri;
si trovano in questa situazione i dipendenti pubblici che hanno lavorato nel settore privato, i lavoratori socialmente utili che, dopo un periodo di lavoro privato e un lungo periodo di precariato, sono stati assunti presso gli enti locali, gli insegnanti che hanno lavoratori presso scuole private e poi presso istituti pubblici, i dipendenti delle società afferenti a Poste italiane dapprima iscritti all'INPS e successivamente ad IPOST, i lavoratori dipendenti delle aziende municipalizzate (con iscrizione INPDAP) il cui contratto è stato «ceduto» alla società subentrata nel servizio, i lavoratori del settore telefonico ed elettrico e altro;
in molti dei casi sopra riportati l'INPS, per ricongiungere o trasferire i periodi contributivi dal relativo fondo, ha chiesto centinaia di migliaia di euro;
il trasferimento gratuito si rendeva necessario ogni qual volta il lavoratore o la lavoratrice cessava dall'iscrizione al proprio fondo di appartenenza (esclusivo o sostitutivo) senza aver maturato il diritto a pensione; l'alternativa sarebbe una ricongiunzione onerosa verso il fondo d'appartenenza non sempre sostenibile da parte dei lavoratori o lavoratrici interessati;
in seguito all'introduzione dell'articolo 12 del decreto-legge n. 78 del 2010 ogni movimento di contribuzione (anche quelli verso INPS) diventano onerosi indipendentemente dal fatto che l'operazione di ricongiunzione/trasferimento generi un migliore importo di pensione e quindi un reale beneficio;
un lavoratore che si trova ad avere un'anzianità contributiva e un'età anagrafica sufficienti a realizzare il diritto a pensione, di fatto, non può esercitare tale diritto perché l'INPS richiede improponibili oneri di ricongiunzione;
l'impossibilità sopravvenuta di trasferire gratuitamente la contribuzione maturata nel fondo esclusivo o sostitutivo verso l'INPS in molti casi ha reso sterile l'utilizzo di quella contribuzione incrementando il numero delle posizioni silenti in contraddizione con il dettato costituzionale;
è stata soppressa una norma fondamentale dell'ordinamento come la legge 2 febbraio 1958, n. 322 (costituzione della posizione assicurativa all'INPS);
l'articolo 38, secondo comma, della Costituzione garantisce al lavoratore mezzi adeguati alle esigenze di vita al verificarsi degli eventi previsti, tra cui rientrano i trattamenti di invalidità e di vecchiaia -:
se il Ministro interrogato non ritenga opportuno e necessario assumere iniziative normative per ripristinare la finalità indicata dalla citata legge n. 322 del 1958, volta ad assicurare che chiunque cessi l'attività lavorativa senza aver maturato il diritto a pensione nel proprio fondo ha diritto a far confluire gratuitamente tutta la sua contribuzione verso il regime generale dell'assicurazione generale obbligatoria. (4-14749)
Interrogazione a risposta scritta 4-14749
presentata da
SABINA ROSSA
giovedì 2 febbraio 2012, seduta n.582
ROSSA e TULLO. - Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali.- Per sapere - premesso che:
il comma 12-septies dell'articolo 12 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) ha introdotto l'onerosità nelle operazioni di ricongiunzione o trasferimento dei contributi da Fondi esclusivi o sostitutivi verso il regime generale dell'Assicurazione generale;
i lavoratori che hanno avuto una vita lavorativa svolta in aziende private e/o pubbliche diverse, oggi per poter accedere alla propria pensione per la quale hanno sempre versato regolarmente i contributi dovuti, devono pagare ulteriori oneri;
si trovano in questa situazione i dipendenti pubblici che hanno lavorato nel settore privato, i lavoratori socialmente utili che, dopo un periodo di lavoro privato e un lungo periodo di precariato, sono stati assunti presso gli enti locali, gli insegnanti che hanno lavoratori presso scuole private e poi presso istituti pubblici, i dipendenti delle società afferenti a Poste italiane dapprima iscritti all'INPS e successivamente ad IPOST, i lavoratori dipendenti delle aziende municipalizzate (con iscrizione INPDAP) il cui contratto è stato «ceduto» alla società subentrata nel servizio, i lavoratori del settore telefonico ed elettrico e altro;
in molti dei casi sopra riportati l'INPS, per ricongiungere o trasferire i periodi contributivi dal relativo fondo, ha chiesto centinaia di migliaia di euro;
il trasferimento gratuito si rendeva necessario ogni qual volta il lavoratore o la lavoratrice cessava dall'iscrizione al proprio fondo di appartenenza (esclusivo o sostitutivo) senza aver maturato il diritto a pensione; l'alternativa sarebbe una ricongiunzione onerosa verso il fondo d'appartenenza non sempre sostenibile da parte dei lavoratori o lavoratrici interessati;
in seguito all'introduzione dell'articolo 12 del decreto-legge n. 78 del 2010 ogni movimento di contribuzione (anche quelli verso INPS) diventano onerosi indipendentemente dal fatto che l'operazione di ricongiunzione/trasferimento generi un migliore importo di pensione e quindi un reale beneficio;
un lavoratore che si trova ad avere un'anzianità contributiva e un'età anagrafica sufficienti a realizzare il diritto a pensione, di fatto, non può esercitare tale diritto perché l'INPS richiede improponibili oneri di ricongiunzione;
l'impossibilità sopravvenuta di trasferire gratuitamente la contribuzione maturata nel fondo esclusivo o sostitutivo verso l'INPS in molti casi ha reso sterile l'utilizzo di quella contribuzione incrementando il numero delle posizioni silenti in contraddizione con il dettato costituzionale;
è stata soppressa una norma fondamentale dell'ordinamento come la legge 2 febbraio 1958, n. 322 (costituzione della posizione assicurativa all'INPS);
l'articolo 38, secondo comma, della Costituzione garantisce al lavoratore mezzi adeguati alle esigenze di vita al verificarsi degli eventi previsti, tra cui rientrano i trattamenti di invalidità e di vecchiaia -:
se il Ministro interrogato non ritenga opportuno e necessario assumere iniziative normative per ripristinare la finalità indicata dalla citata legge n. 322 del 1958, volta ad assicurare che chiunque cessi l'attività lavorativa senza aver maturato il diritto a pensione nel proprio fondo ha diritto a far confluire gratuitamente tutta la sua contribuzione verso il regime generale dell'assicurazione generale obbligatoria. (4-14749)
giovedì 2 febbraio 2012
Interrogazione in Commissione rivolta al Ministro dello Sviluppo Economico per sapere se il Ministro non ravvisi una grossa contraddizione tra il varo del decreto liberalizzazioni che amplia gli orari di apertura dei negozi e la riduzione invece di un servizio universale, come quello erogato da Poste italiane, azienda il cui maggior azionista è il Governo.
Atto Camera
Interrogazione a risposta in Commissione 5-06078
presentata da
LUCIA CODURELLI
mercoledì 1 febbraio 2012, seduta n.580
CODURELLI. - Al Ministro dello sviluppo economico.- Per sapere - premesso che:
si apprende dalla stampa locale della Lombardia, ma anche di altre regioni, che poste italiane in data 29 gennaio 2012 ha introdotto un nuovo orario di apertura e chiusura degli sportelli al pubblico, alla luce di un piano di riorganizzazione e razionalizzazione degli uffici postali e del personale. Detto provvedimento è stato assunto, inoltre, in maniera repentina ed unilaterale, senza alcuna trattativa né concertazione con le amministrazioni dei comuni interessati; le relazioni sindacali sono state interrotte per questo ed è in atto la mobilitazione dei lavoratori per mancanza di organico;
nello specifico sono previste riduzioni d'orario per il servizio ai cittadini, che in concreto, comporteranno il funzionamento su due, massimo tre giorni alla settimana, per diversi uffici, soprattutto in quelli periferici delle province di Sondrio e Lecco;
infatti, soprattutto nelle zone collinari e pedemontane della Lombardia, l'attuazione del suddetto piano di riorganizzazione, con relativo cambio di orario, significa incidere pesantemente sull'erogazione del servizio postale, già carente in molti settori: in moltissimi comuni delle province di Lecco, Sondrio e altre, viene continuamente segnalata la mancata consegna della corrispondenza e le lunghe file agli sportelli. Nonostante le numerose denunce e i molteplici atti di sindacato ispettivo, la situazione è in continuo peggioramento;
va ricordato inoltre che poste italiane ha «esodato» più di 5000 lavoratori (oggi, moltissimi di loro sono senza lavoro e senza pensione in virtù delle nuove norme in materia di pensione) che però non sono stati sostituiti da nuove assunzione, pertanto molti sportelli rimangono chiusi, le file negli uffici aumentano così come i disagi per i cittadini ma anche per i dipendenti -:
quali opportune iniziative intenda assumere il Ministro al fine di garantire l'efficienza dell'essenziale servizio pubblico e in particolare nelle aree disagiate, colpite dagli imminenti provvedimenti di chiusura o di riduzione delle aperture dei citati sportelli postali;
se il Ministro non ravvisi una grossa contraddizione tra il varo del decreto liberalizzazioni che amplia gli orari di apertura dei negozi e la riduzione invece di un servizio universale, come quello erogato da Poste italiane, azienda il cui maggior azionista è il Governo.(5-06078)
Interrogazione a risposta in Commissione 5-06078
presentata da
LUCIA CODURELLI
mercoledì 1 febbraio 2012, seduta n.580
CODURELLI. - Al Ministro dello sviluppo economico.- Per sapere - premesso che:
si apprende dalla stampa locale della Lombardia, ma anche di altre regioni, che poste italiane in data 29 gennaio 2012 ha introdotto un nuovo orario di apertura e chiusura degli sportelli al pubblico, alla luce di un piano di riorganizzazione e razionalizzazione degli uffici postali e del personale. Detto provvedimento è stato assunto, inoltre, in maniera repentina ed unilaterale, senza alcuna trattativa né concertazione con le amministrazioni dei comuni interessati; le relazioni sindacali sono state interrotte per questo ed è in atto la mobilitazione dei lavoratori per mancanza di organico;
nello specifico sono previste riduzioni d'orario per il servizio ai cittadini, che in concreto, comporteranno il funzionamento su due, massimo tre giorni alla settimana, per diversi uffici, soprattutto in quelli periferici delle province di Sondrio e Lecco;
infatti, soprattutto nelle zone collinari e pedemontane della Lombardia, l'attuazione del suddetto piano di riorganizzazione, con relativo cambio di orario, significa incidere pesantemente sull'erogazione del servizio postale, già carente in molti settori: in moltissimi comuni delle province di Lecco, Sondrio e altre, viene continuamente segnalata la mancata consegna della corrispondenza e le lunghe file agli sportelli. Nonostante le numerose denunce e i molteplici atti di sindacato ispettivo, la situazione è in continuo peggioramento;
va ricordato inoltre che poste italiane ha «esodato» più di 5000 lavoratori (oggi, moltissimi di loro sono senza lavoro e senza pensione in virtù delle nuove norme in materia di pensione) che però non sono stati sostituiti da nuove assunzione, pertanto molti sportelli rimangono chiusi, le file negli uffici aumentano così come i disagi per i cittadini ma anche per i dipendenti -:
quali opportune iniziative intenda assumere il Ministro al fine di garantire l'efficienza dell'essenziale servizio pubblico e in particolare nelle aree disagiate, colpite dagli imminenti provvedimenti di chiusura o di riduzione delle aperture dei citati sportelli postali;
se il Ministro non ravvisi una grossa contraddizione tra il varo del decreto liberalizzazioni che amplia gli orari di apertura dei negozi e la riduzione invece di un servizio universale, come quello erogato da Poste italiane, azienda il cui maggior azionista è il Governo.(5-06078)
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