mercoledì 21 settembre 2011

LA LEGGE 183/2010 E IL (TENTATO) DEPOTENZIAMENTO DEL CONTRATTO A TERMINE

La L. 183/2010 e il (tentato) depotenziamento del contratto a termine
1. Premessa – 2. L’impugnazione del contratto a termine – 3. L’indennità onnicomprensiva – 4. Le prime pronunce giurisprudenziali.
1. Premessa
Tra le tante modifiche apportate dalla L. 183/10, quelle più dirompenti sul piano pratico sembrano essere quelle relative al contratto a termine. Non a caso, una norma di quella legge, l’art. 32, è specificamente intitolata “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato”, anche se poi la norma comincia modificando l’art. 6 L. 604/66, per proseguire estendendo quella norma modificata a una serie di istituti, di cui il contratto a termine è solo uno dei tanti ivi contemplati. Ma il fatto che il legislatore abbia rubricato la norma richiamando espressamente, ed esclusivamente, il contratto a termine fa capire che questo era l’istituto di maggior interesse.
Del resto, non è la prima volta che il legislatore tenta di depotenziare la tutela giuridica nei confronti dei lavoratori a tempo determinato: ci aveva già provato con il D. Lgs. 368/01. A quel tempo, tutti erano convinti che la riforma avrebbe provocato, tramite il passaggio dal sistema chiuso a quello aperto, una maggiore flessibilità nel ricorso a questa tipologia contrattuale: la giurisprudenza che si è sviluppata a seguito dell’entrata in vigore delle norme del 2001 ha invece dimostrato che, con quella riforma, il ricorso al contratto a termine è divenuto paradossalmente meno flessibile per il datore di lavoro.
Si può poi ricordare la riforma del 2008, che aveva introdotto nel D. Lgs. 368/01 l’art. 4 bis[i], che prevedeva una tutela appunto depotenziata nei confronti dei lavoratori a termine che avessero, alla data di entrata in vigore della riforma stessa, una causa pendente. Ma anche questo tentativo è stato frustrato dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità di quella norma[ii].
Ebbene, il citato art. 32 è solo l’ultimo di quei tentativi. In questo caso (analogamente a quanto era accaduto con l’art. 4 bis, e diversamente da quanto era accaduto con il D. Lgs. 368/01) il tentativo è compiuto operando su aspetti procedurali più che sostanziali: a parità di disciplina sostanziale dell’istituto, infatti, vengono introdotte norme decadenziali e processuali che, se non opportunamente interpretate, potrebbero restringere in maniera davvero significativa la tutela del lavoratore a termine.
In primo luogo, la lettera a. del c. 3 estende la nuova disciplina dell’art. 6 L. 604/66 ai “licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative [tra l’altro] alla legittimità del termine apposto al contratto”. Questa francamente appare una riforma sostanzialmente priva di rilievo pratico. La giurisprudenza si è da tempo consolidata nel senso che la risoluzione per scadenza del termine del rapporto di lavoro a tempo determinato non è qualificabile alla stregua di un licenziamento[iii], quindi a rigore la lettera a. del c. 3 non è applicabile tutte le volte in cui si discuta di un rapporto cessato per mera scadenza del termine.
Vero è che il giudice può qualificare gli atti solo sulla scorta di quanto disposto dal legislatore e, astrattamente, il legislatore potrebbe fornire del licenziamento una definizione tale da ricomprendere anche la disdetta per scadenza del termine di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tuttavia, ciò non è accaduto in questo caso, giacché la lettera a. del c. 3 si limita a richiamare l’ipotesi del licenziamento, senza fornirne alcuna definizione che, dunque, resta ancora quella previgente, sulla base della quale si era formata la giurisprudenza, sopra richiamata, che in questo caso esclude la configurabilità del licenziamento, al contempo decretando la superfluità della norma in esame.
2. L’impugnazione del contratto a termine
Più problematica sembra invece l’ipotesi contemplata alla lettera d. del medesimo c. 3, che estende l’applicabilità del riformato art. 6 L. 604/66 “all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 . Lgs. 368/01 […], con termine decorrente dalla scadenza del medesimo”.
L’interpretazione della norma non pone particolari problemi nel caso in cui il rapporto sia caratterizzato da un unico contratto a termine: in questo caso è evidente che i termini di impugnazione decorrono dopo la cessazione del rapporto. Problemi interpretativi possono invece sorgere con riferimento ai casi caratterizzati da una pluralità di contratti a termine che si sono succeduti nel tempo: in questo caso, si potrebbe sostenere che il lavoratore debba impugnare ogni singolo contratto, anche se il relativo termine di impugnazione decorre non dopo la cessazione definitiva del rapporto, ma durante l’esecuzione di un successivo contratto a termine. La conseguenza di questo ragionamento è che se l’impugnazione avvenisse solo dopo che il rapporto è definitivamente cessato, la causa non potrebbe riguardare i primi contratti a termine di quel rapporto, per i quali sia intervenuta la decadenza dei 60 o dei 270 giorni.
Che questa interpretazione sia infondata è di immediata percezione, sol che si pensi che, di fatto, un lavoratore non impugnerà mai un precedente contratto a termine mentre ne sta svolgendo un altro. Ciò avrebbe la conseguenza di precludere di fatto (o di limitare) il controllo giudiziario in un caso in cui il datore di lavoro ha fatto illegittimo ricorso a un rapporto di lavoro eccezionale, in luogo dell’ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato: in altre parole, il controllo giudiziario sarebbe di fatto vanificato a fronte di uno dei più gravi comportamenti che un datore di lavoro può porre in essere. Insomma, una simile interpretazione di fatto vanificherebbe la normativa limitativa del contratto a termine, e ciò in contrasto con il principio basilare della eccezionalità del termine (positivamente sancita dall’art. 1 c. 01 D. Lgs. 368/01) e con il rigore cui il legislatore subordina il ricorso a questa tipologia contrattuale.
A ciò si aggiunga che, benché il rapporto sia apparentemente frammentato tra un contratto a termine e l’altro, in realtà la illegittimità del termine comporta la sussistenza di un unico rapporto a tempo indeterminato, decorrente dal primo contratto a termine illegittimo fino alla scadenza dell’ultimo. Ciò significa che, benché formalmente anche prima di allora si siano verificate plurime scadenze del termine, in realtà il rapporto è caratterizzato da una sua continuità e da un unico, complessivo termine, giacché quelli intermedi sono simulati e, comunque, di effimera efficacia, in quanto destinati a essere di lì a poco vanificati dalla instaurazione di un nuovo contratto a termine. La miglior riprova di quanto fin qui detto sta nel fatto che, nel caso di accertata illegittimità di uno dei primi della serie di contratti a termine stipulati tra le parti, la pronuncia giudiziale si focalizza solo sulla disdetta operata nei confronti dell’ultimo di tali contratti, evidentemente ritenendo irrilevanti o fittizie o simulate le disdette precedenti, proprio perché rientranti nell’ambito di un unico rapporto di lavoro e, come tali, prive di efficacia giuridica.
In buona sostanza, anche in un caso come questo vi è in realtà un unico termine scaduto, ovvero quello che ha comportato definitivamente la fine del rapporto (perché quelli precedenti non hanno impedito che il rapporto proseguisse), con la conseguenza che il giorno dal quale decorrono i termini di 60 e 270 giorni è quello della scadenza del termine conclusivo, dopo il quale il rapporto (complessivamente considerato) è finito.
Del resto, qui si deve capire qual sia esattamente l’oggetto dell’impugnazione. Il punto di partenza, è già stato detto, è l’art. 6 L. 604/66, che individua come oggetto dell’impugnazione un licenziamento. L’applicabilità di questa norma è ora estesa, tra l’altro, alle azioni di nullità del contratto a termine; resta da capire se oggetto dell’impugnazione sia il termine apposto al contratto o la cessazione del rapporto a seguito della scadenza del termine, o tutti e due. La soluzione preferibile, per analogia con l’oggetto dell’impugnazione dell’art. 6 e per il fatto che il termine decadenziale decorre pur sempre dalla cessazione del rapporto, è quella che individua l’oggetto dell’impugnazione, appunto, nella cessazione del rapporto.
Se è così, non ha senso affermare che l’impugnazione debba avvenire in occasione di ogni scadenza del singolo contratto: nel caso di pluralità di rapporti a termine c’è una sola disdetta che sia giuridicamente rilevante, ed è l’ultima, mentre le precedenti non producono alcun effetto giuridico. Anche da questo punto di vista rileva la circostanza che, in realtà, il rapporto, benché fittiziamente frammentato in plurimi contratti a termine, è in realtà uno solo, che viene risolto solo una volta alla conclusione della successione di quei contratti, essendo le interruzioni tra un contratto e l’altro semplici e fittizie sospensioni della complessa e articolata, ma unitaria, realtà contrattuale. Pertanto, poiché tra un contratto e l’altro manca una reale disdetta, manca anche l’oggetto dell’impugnazione: tra un contratto e l’altro non c’è nulla da impugnare, con la conseguenza che la “scadenza del termine”, da cui decorre il termine decadenziale, non può essere altro che la scadenza dell’ultimo contratto della serie.
Volendo una riprova di quanto detto, si può far riferimento all’art. 5 c. 4 bis D. Lgs. 368/01 che, come si ricorderà, prevede la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto nel caso in cui i contratti a termine, indipendentemente solo dai periodi non lavorati tra un contratto e l’altro, siano durati oltre 36 mesi. Questa norma fa capire che, nel caso di conversione di un rapporto caratterizzato da una pluralità di contratti, il rapporto (a tempo indeterminato) configurabile è uno solo. Soprattutto, costituisce la riprova che il recesso operato tra un contratto e l’altro non ha alcuna rilevanza giuridica: se così non fosse, il periodo non lavorato tra un contratto e l’altro dovrebbe rilevare ex art. 5 c. 4 bis. Resta pertanto da capire, se si conclude che ogni contratto a termine deve essere impugnato alla scadenza, cosa accada nell’ipotesi disciplinata dall’art. 5 c. 4 bis in assenza di impugnazione da parte del lavoratore. E’ vero che a rigore l’ipotesi non è contemplata dalla disposizione in esame dell’art. 32 L. 183/10 (che fa riferimento ai soli casi di illegittimità del termine ex artt. 1, 2 e 4 D.  Lgs. 368/01). Tuttavia, il coordinamento tra le due norme (necessario in un ordinamento giuridico coerente) porta ancora una volta a concludere che uno solo è il rapporto e una sola è la disdetta.
A ciò si aggiunga ancora che la diversa opinione comporterebbe ulteriori problemi interpretativi di complessa soluzione. Si consideri il caso del lavoratore che abbia stipulato una pluralità di contratti a termine, che abbia impugnato i primi e gli ultimi e non quelli intermedi. Si tratta a questo punto di capire cosa succederebbe (applicando la tesi di chi sostiene che ogni contratto dovrebbe essere impugnato) nel caso di accertata illegittimità dei soli primi contratti e non anche degli ultimi: a rigore, poiché la situazione di accertata illegittimità è stata successivamente sanata per effetto dell’intervenuta decadenza, non potrebbe operare la conversione a tempo indeterminato del rapporto, ma ciò in evidente contrasto con il principio secondo cui in vigenza di un rapporto a tempo indeterminato non può validamente essere costituito un rapporto a termine (su questo principio si fonda l’altro, secondo il quale la illegittimità di uno dei contratti a termine che si sono succeduti nel tempo travolge tutti i contratti a termine successivi).
Una diversa interpretazione contrasterebbe anche con principi di rango costituzionale. Infatti, alla cessazione del singolo contratto a termine viene estesa la disciplina decadenziale prevista nel caso di licenziamento. La differenza tra le due ipotesi è macroscopica: in questo secondo caso il lavoratore ha la certezza che il rapporto di lavoro è cessato (anche perché ha ricevuto una comunicazione scritta al riguardo), il che comporta due importanti conseguenze. La prima, è che il lavoratore in questione si recherà immediatamente da un avvocato o da un suo rappresentante sindacale; la seconda è che il lavoratore, non avendo più nulla da perdere, non esiterà a impugnare il licenziamento. Queste conseguenze rendono tollerabile un onere decadenziale anomalo nell’ordinamento e caratterizzato da un termine di per sé esiguo.
Nel caso di disdetta di un contratto a termine la situazione è affatto diversa. In questa ipotesi, il lavoratore non riceve, almeno di regola, alcuna comunicazione di cessazione del rapporto e, soprattutto, confida che (come spesso avviene) il rapporto proseguirà mediante la stipulazione di un nuovo contratto a termine. Che ciò non avvenga subito è addirittura imposto dall’art. 5 c. 3 D. Lgs. 368/01: in altre parole, il lavoratore sa che, dopo la scadenza del contratto, non potrà stipularne un altro per almeno 10 o, a seconda dei casi, 20 giorni. Ciò impone al lavoratore un’attesa forzata per un periodo di tempo pari almeno all’intervallo contemplato dall’art. 5 c. 3 appena citato, durante il quale il silenzio del datore di lavoro non può essere necessariamente interpretato nel senso della definitiva cessazione del rapporto.
Si vede allora la differenza rispetto al lavoratore licenziato: il lavoratore a termine non ha la stessa urgenza, né la stessa determinazione di impugnare la scadenza del contratto. Per di più, il termine decadenziale, già di per sé esiguo, viene ulteriormente compresso quanto meno per effetto dell’intervallo ex art. 5 c. 3 D. Lgs. 368/01. In buona sostanza, a un lavoratore di fatto più debole, qual è quello a termine, viene applicato il termine decadenziale previsto per un lavoratore più forte (quello a tempo indeterminato che è stato licenziato). Non solo: il termine decadenziale solo apparentemente è uguale quanto a durata, dal momento che, di fatto, è addirittura più esiguo. Il contrasto con l’art. 3 Cost. è evidente e inevitabile.
In ogni caso, l’ipotesi in questione non dice nulla per l’ipotesi della illegittimità dei contratti a termine per fraudolenta elusione della relativa legge. La questione è troppo nota per essere illustrata in questa sede. Basterà dire che l’istituto della frode alla legge è stata negli ultimi tempi di fatto accantonata, complice forse la palese inidoneità delle causali addotte a giustificare l’apposizione del termine: la causa finiva prima di esaminare l’ipotesi della fraudolenza. E’ però ovvio che se il c. 3 lettera d. venisse interpretato nel senso che è necessario impugnare ogni contratto a termine alla relativa scadenza, l’istituto potrebbe tornare di attualità. Naturalmente, questa ipotesi di illegittimità non sarebbe coperta dall’intervenuta decadenza, che rigaurda i motivi di illegittimità ex art. 1, 2 e 4 D. Lgs. 368/01, e quindi motivi affatto diversi da quelli della fraudolenza (che discende invece direttamente dai principi generali dell’ordinamento, e in particolare, dall’art. 1344 c.c. che, come è noto, dispone la illiceità della causa - quindi la nullità del contratto ex art. 1418 c.c. o, meglio, la nullità della clausola relativa al termine ex art. 1419 c. 2 c.c. - nel caso in cui il contratto costituisca “il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”).
3. L’indennità onnicomprensiva
L’ultima questione riguarda il c. 5, ovvero la “indennità onnicomprensiva” stabilita dal giudice “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato”. Non è mancato chi ha sostenuto che l’indennità è sostitutiva non solo delle retribuzioni perdute dal giorno della messa in mora, ma anche della ricostituzione del rapporto. Queste considerazioni non possono però essere condivise.
Preliminarmente, bisogna ricordare che, in una causa che verta su un contratto a termine, le domande normalmente sono due: 1) accertamento della illegittima apposizione del termine, con conseguente trasformazione a tempo indeterminato del rapporto; 2) accertamento della illegittimità della disdetta, con conseguente ripristino del rapporto. Si badi: la conversione del rapporto consegue alla prima domanda, non alla seconda.
Le due domande sono tanto autonome tra loro che possono anche non coesistere: la causa può avvenire anche a rapporto in corso, nel qual caso ci sarà la sola domanda che comporta la conversione, e non anche quella che impone la ricostituzione del rapporto. Ebbene, di queste due domande la legge di riforma contempla espressamente solo la prima: l’indennità è connessa alla conversione del rapporto e prescinde dalla sua ricostituzione, che è effetto di altra, autonoma ed eventuale domanda. Per questo motivo, dunque, l’indennità in questione non ha nulla a che vedere né con la disdetta del rapporto a termine né con il conseguente ordine di ricostituzione del rapporto, ed è dunque inevitabile che la stessa, conseguendo alla domanda di conversione del rapporto e non anche alla domanda di illegittimità della disdetta, sia del tutto inapplicabile alla diversa problematica della ricostituzione del rapporto.
Del resto il Governo (accogliendo l’ordine del giorno G31.124 proposto dai senatori Bianco, Roilo, Adragna, Blazina, Ghedini, Ichino, Nerozzi, Passoni, Treu) ha garantito “che la disposizione di cui all’art. 31 c. 5 venga correttamente intesa come riferita alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento del lavoratore venga intesa come aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione”. Con maggiore chiarezza, in occasione del dibattito alla Camera (e in risposta al Presidente della XI Commissione, Silvano Moffa, che chiedeva un’interpretazione dell’art. 32 c. 5 tale da “chiarire, in maniera direi definitiva, che questo sostanzialmente si aggiunge e non sostituisce il ripristino del rapporto di lavoro”), il ministro Sacconi così dichiarava: “Il Governo condivide quanto poco fa richiamava il presidente della XI Commissione. Invero, al Senato è stato presentato un ordine del giorno con lo scopo di chiarire la portata della norma citata e il Governo ha accettato quell’ordine del giorno; pertanto, non ho alcuna difficoltà a ribadire che un’oggettiva lettura della norma stessa conduce a ritenere che la conversione di cui si parla sia la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, e che quindi non vi sia conflitto fra la conversione a tempo indeterminato e quella definizione di risarcimento, anzi i due termini coabitano”[iv].
L’indennità di cui si parla deve essere considerata aggiuntiva anche al diritto del lavoratore di percepire le retribuzioni perdute dal giorno della messa in mora a quello della sentenza. Ancora una volta rileva il dato testuale della norma, che lega la condanna al pagamento dell’indennità alla conversione a tempo indeterminato del rapporto (che, come si è detto, è il frutto di una domanda diversa da quella, eventuale, finalizzata alla ricostituzione del rapporto). Ciò porta inevitabilmente a concludere che l’indennità rappresenta la sanzione alla illegittima apposizione del termine e non alla disdetta del contratto, tanto più che la quantificazione dell’indennità si fonda sui criteri ex art. art. 30 c. 3 L. 183/10 (dimensioni e condizioni dell’attività esercitata al datore di lavoro, situazione del mercato del lavoro locale, anzianità e condizioni del lavoratore, comportamento delle parti) che nulla hanno a che vedere con i requisiti relativi al pagamento delle retribuzioni perdute a seguito della disdetta del contratto (offerta della prestazione lavorativa, mancanza di fonte alternativa di reddito).
Una diversa interpretazione porrebbe seri dubbi di legittimità costituzionale della norma, in particolare nel caso in cui la durata del processo sia tale da rendere l’indennità in questione insufficiente a coprire il reale depauperamento del lavoratore. In primo luogo, si configurerebbe la violazione dell’art. 3 Cost., giacché due lavoratori a termine che abbiano subito lo stesso illecito sarebbero trattati diversamente, ottenendo un risarcimento sufficiente o incongruo a seconda della durata del processo. Il lavoratore a termine sarebbe trattato differentemente, quanto alla tutela risarcitoria, anche rispetto a ogni altro lavoratore che abbia illegittimamente perduto il posto di lavoro nell’ambito della tutela reale: quest’ultimo percepirebbe l’integrale ristoro delle retribuzioni perdute (ex art. 18 S.L. o in base ai principi comuni nel caso di licenziamento nullo o di applicazione dell’art. 27 d.lgs. 276/2003), a differenza del lavoratore a termine che, nonostante la tutela reale, potrebbe percepire un trattamento risarcitorio insufficiente a coprire tutte le retribuzioni perdute.
In secondo luogo, verrebbe violato l’art. 36 Cost., giacché il lavoratore (pur in pendenza del rapporto, per effetto della ricostituzione a opera del giudice) sarebbe almeno in parte privato della retribuzione equa e sufficiente. Infine, sarebbe violato il principio del giusto processo ex art. 24 Cost.: evidentemente, il limite al risarcimento massimo incentiverebbe comportamenti processuali dilatori da parte del datore di lavoro.
Infine qualche parola sull’art. 32 c. 7, che estende la disciplina dell’indennità onnicomprensiva ex art. 32 c. 5 ai giudizi pendenti. Preliminarmente, bisogna osservare che il legislatore si riferisce ai soli giudizi pendenti in primo grado: l’art. 421 cpc, contemplato dalla norma, disciplina i poteri istruttori del giudice di primo grado, mentre i medesimi poteri del giudice dell’appello sono trattati all’art. 437 c. 2 cpc. A maggior ragione, la norma non contempla i giudizi pendenti avanti la Corte di cassazione, dove non può esservi istruttoria.
In ogni caso, la norma è di dubbia legittimità costituzionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 311 del 2009, ha recepito, in virtù del rinvio mobile realizzato tramite l’art. 117 c. 1 Cost., il divieto di interventi legislativi retroattivi anche in materia civile, contemplando come eccezione la sola ipotesi che tali interventi retroattivi siano dovuti a motivi imperativi di interessi generali, così accogliendo l’interpretazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali come proposta in alcune sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Per questo motivo, ogni disposizione retroattiva contenuta nella L. 183/10 è irrimediabilmente illegittima.
4. Le prime pronunce giurisprudenziali
Nonostante la novità della materia, alcune pronunce giurisprudenziali si sono già occupate delle questioni che sono state sopra trattate. Eccone alcune:
o       Trib. Busto Arsizio 29/11/10, est. Molinari, che ha concluso nel senso che l’indennità ex art. 32 c. 5 L. 183/10 è aggiuntiva sia alla ricostituzione del rapporto che alle retribuzioni dovute dalla messa in mora alla sentenza;
o       Trib. Bari 1/12/10, est. Colucci, che ha ritenuto l’indennità in questione aggiuntiva alla ricostituzione del rapporto. E’ stata pertanto disposta, appunto, la ricostituzione del rapporto, disponendo la prosecuzione della causa per la sola determinazione delle conseguenze economiche;
o       altre sentenze hanno ritenuto l’indennità ex art. 32 c. 5 aggiuntiva alla ricostituzione del rapporto, ma sostitutiva delle retribuzioni dovute dal giorno della messa in mora: Trib. Milano 29/12/10, est. Tarantola; Trib. Milano 23/12/10, est. Pattumelli, Trib. Milano 10/1/11, est. Atanasio;
o       Trib. Milano 2/12/10, est. Visonà, che ha escluso l’applicabilità dell’indennità ex art. 32 c. 5 L. 183/10 alla fattispecie di cui all’art. 27 c. 1 D. Lgs. 276/03, osservando che “il contratto di somministrazione (il contratto c.d. commerciale tra utilizzatore e somministratore) e il contratto di lavoro (il contratto tra somministratore e lavoratore), per quanto collegati, sono tra loro separati, e che l’art. 27 c. 1 prevede la “costituzione” di un nuovo rapporto di lavoro tra l’utilizzatore e il lavoratore e non la sostituzione dell’utilizzatore al somministratore”;
o       Cass. 28/1/11, pres. Roselli, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 c. 5 e 6 L. 183/10, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost.;
o       Trib. Trani 20/12/10, est. La Notte Chirone, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 c. 5, 6 e 7 L. 183/10, con riferimento agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost..

Stefano Chiusolo


[i] La modifica era stata apportata dall’art. 21 c. 1 bis DL 112/08, convertito con modificazioni in L. 6 agosto 2008, n. 133.
[ii] Corte Cost. 8/7/2009 n. 214, Pres. Amirante, in D&L 2009, 657, con nota di Alberto Guariso, "Non si chiude ancora definitivamente la partita sul contratto a termine acausale".
[iii] Cass. 5/10/2004 n. 19899, Pres. Prestipino Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Irene Corso, 751; Corte d'appello Milano 9/12/2003, Pres. Ruiz Est. De Angelis, in D&L 2004, 79; Corte app. Milano 20/1/2006, Pres. Castellini Est. Sbordone, in D&L 2006, con n. Eleonora Pini, “Avviamento obbligatorio e contratto a termine”, 444; Corte app. Catania 6/3/2007, Pres. Pagano Est. D'Allura, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Marina Nicolosi, "Risoluzione per mutuo consenso del contratto a termine illegittimo, attività lavorativa presso terzi e offerta della prestazione", 933; Trib. Milano 12/10/2006, Est. Peragallo, in D&L 2007, 132; Trib. Treviso 26/9/2006, Est. Parise, in D&L 2008, con nota di Barbara Fezzi, "Illegittimità dell'apposizione del termine a un contratto di lavoro e trasformazione in rapporto a tempo indeterminato", 153.
[iv]  L’intervento è reperibile al seguente indirizzo: http://www.camera.it/412?idSeduta=385&resoconto=stenografico&indice=alfabetico&tit=00120&fase=00060

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