Deposito del 11/10/2012
Sentenza 223 del 08/10/2012 depositata il
11/10/2012
Udienza Pubblica del 03/07/2012,
Presidente: QUARANTA, Redattore: TESAURO
Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica - Contenimento della
spesa in materia di pubblico impiego - Personale di cui alla legge n. 27 del
1981 (magistrati e categorie equiparate) - Previsione che non siano erogati né
recuperabili gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del
triennio 2010-2012; che per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per
l'anno 2014 sia pari alla misura già prevista per l'anno 2010 ed il conguaglio
per l'anno 2015 venga determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014 -
Previsione, altresì, per detto personale, che l'indennità speciale, di cui
all'art. 3 della legge n. 27 del 1981, spettante per gli anni 2011, 2012 e 2013
sia ridotta del 15% per l'anno 2012 e del 32% per l'anno 2013. (tutte le ord.);
Dipendenti delle amministrazioni pubbliche - Trattamento economico - Prevista
riduzione, per i trattamenti economici superiori a 90.000 euro lordi e a
150.000, rispettivamente del 5% e del 10% dei predetti importi. (Ord. 46/12,
53/12, 54/12, 74/12, 75/12); Modalità di erogazione dell'indennità di
buonuscita, indennità premio di fine servizio, del trattamento di fine rapporto
e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una tantum comunque
spettante a seguito della cessazione, a vario titolo, dell'impiego. (Ord.
54/12, 74/12); Trattamenti di fine rapporto - Previsione che gli stessi sono
integralmente regolati in base all'art. 2120 c.c., con applicazione
dell'aliquota del 6,91% - Ord. 54/12.
Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - manifesta inammissibilità
SENTENZA N. 223
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano
SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe
FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
degli articoli 9, commi 2, 21 e 22 e 12, commi 7 e 10 del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30
luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale della
Campania, sezione distaccata di Salerno, con ordinanza del 23 giugno 2011, dal
Tribunale amministrativo regionale del Piemonte con ordinanza del 28 luglio
2011, dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto con ordinanza del 15
novembre 2011, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento
con ordinanza del 14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo regionale
della Sicilia con ordinanza del 14 dicembre 2011, dal Tribunale amministrativo
regionale dell’Abruzzo, sezione di Pescara, con ordinanza del 13 dicembre 2011,
dal Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, con due ordinanze del 25
gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con
ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della
Liguria, con ordinanza del 10 gennaio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale
della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con due ordinanze del 1°
febbraio 2012, dal Tribunale amministrativo regionale della Emilia-Romagna,
sezione staccata di Parma, con ordinanza del 22 febbraio 2012, dal Tribunale
amministrativo regionale della Lombardia, con ordinanza dell’11 gennaio 2012 e
dal Tribunale amministrativo regionale della Liguria, con ordinanza del 10
gennaio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 219 e 248 del registro ordinanze
2011 ed ai nn. 11, 12, 20, 46, 53, 54, 56, 63, 74, 75, 76, 81 e 94 del registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 44 e
50, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 7, 9, 14, 15, 17, 18, 19 e 21,
prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Allegro
Anna ed altri, di Baglivo Antonio ed altri, di Bruni Bruno Francesco ed altri,
di Abate Francesco ed altri, di Bruno Eleonora ed altri, di Campo Lucia Anna ed
altri, di Angeleri Alessandra ed altri, di Chiappiniello Agostino ed altri, di
Anedda Ornella ed altri, di Casanova Cinzia ed altri, di Arena Annalisa ed
altri, di Cicciò Giacomo, di Interlandi Caterina ed altri, nonchè gli atti di
intervento di Abbritti Paolo e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 luglio
2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Vittorio Angiolini per
Allegro Anna ed altri, per Baglivo Antonio ed altri, per Bruni Bruno Francesco
ed altri, per Abate Francesco ed altri, per Bruno Eleonora ed altri, per Campo
Lucia Anna ed altri, per Angeleri Alessandra ed altri, per Anedda Ornella ed
altri, per Casanova Cinzia ed altri, per Arena Annalisa ed altri, per Cicciò
Giacomo, per Interlandi Caterina ed altri, Sandro Campilongo per Chiappiniello
Agostino ed altri, e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
1.— Sono sottoposte all’esame della Corte
15 ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 219, 248 del 2011; 11, 12, 20, 46, 53,
54, 56, 63, 74, 75, 76, 81 e 94 del 2012), con le quali i TAR per la Campania,
Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Trento, Umbria, Sardegna, Liguria,
Calabria, Emilia-Romagna e Lombardia hanno sollevato questioni di legittimità
costituzionale: dell’articolo 9, commi 22 (tutte le ordinanze – alcune di esse
indicando anche il comma 21), nonché del comma 2 (le sole ordinanze r.o. n. 46,
53, 54, 73, 74 e 75 del 2012); dell’articolo 12, comma 7 (le ordinanze r.o. nn.
54 e 74 del 2012); dell’articolo 12, comma 10 (la sola ordinanza r.o. n. 54 del
2012) del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2,
3, 23, 24, 36, 42, 53, 97, 100, 101, 104, 108, 111, 113 e 117, primo comma,
della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
1.1.— Le questioni hanno ad oggetto, in
parte, le stesse norme, censurate con argomentazioni in larga misura
coincidenti, e, quindi, va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di
un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
2.— Tutte le ordinanze in esame, emesse
nel corso di giudizi proposti da magistrati ordinari, contabili ed
amministrativi, censurano, sotto diversi profili, l’art. 9, comma 22, del
decreto-legge summenzionato (quelle iscritte al reg. ord. nn. 12, 53, 74 e 75
del 2012 in combinato con il comma 21); alcune di esse censurano anche il comma
2 dell’art. 9; le ordinanze nn. 54 e 74 del 2012 hanno ad oggetto anche l’art.
12, comma 7; infine, la sola ordinanza n. 54 dubita della legittimità
costituzionale anche del comma 10 del medesimo articolo 12.
2.1.— I rimettenti premettono che la
disciplina censurata si ricaverebbe dal complesso normativo dei commi 21 e 22
del d.l. n. 78 del 2010, in quanto per i magistrati, così come per tutte le
altre categorie del personale non contrattualizzato, verrebbe introdotto un
“blocco” dei “meccanismi di adeguamento retributivo” previsto dal primo periodo
del comma 21, la cui operatività sarebbe estesa sia a livello di acconto che a
livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo) dal primo periodo dell’art.
22. Inoltre, ai soli magistrati verrebbe operata una riduzione crescente nel
tempo dell’indennità giudiziaria e verrebbero introdotti, sempre in forza
dell’art. 22, “tetti” all’acconto per l’anno 2014.
In relazione a tale disciplina, vengono,
in primo luogo, sollevate questioni di legittimità costituzionale relative al
complessivo intervento riguardante sia il cosiddetto “blocco degli
adeguamenti”, sia la riduzione della speciale indennità di cui all’articolo 3
della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di
magistratura).
In particolare, le ordinanze iscritte al
reg. ord. nn. 219 e 248 del 2011, nn. 11, 46, 53, 54, 56, 63, 76, 81 e 94 del
2012, assumono che la disciplina in questione contrasterebbe con l’art. 104,
primo comma, della Costituzione, in quanto, rappresentando il c.d. adeguamento
automatico un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei
magistrati, diretto alla «attuazione del precetto costituzionale
dell’indipendenza», la misura adottata violerebbe il principio in virtù del
quale il trattamento economico dei magistrati non sarebbe «nella libera
disponibilità del potere legislativo» e dovrebbe non soltanto essere «adeguato»
alla quantità e qualità del lavoro prestato (ex art. 36 della Costituzione), ma
anche va «certo e costante, e in generale non soggetto a decurtazioni (tanto
più se periodiche o ricorrenti)».
Tale disciplina contrasterebbe, altresì,
con gli artt. 3, 100, 101, 104 e 108, della Costituzione, in quanto
realizzerebbe una irragionevole decurtazione del trattamento retributivo dei
magistrati, il quale è caratterizzato da un automatismo legale, che si pone
«come guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell’autonomia
ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche sul
piano economico», con la conseguenza che una simile manovra obbligherebbe il
magistrato (come singolo o come Ordine) a rivendicazioni economiche verso i
pubblici poteri.
Viene, inoltre, evocata (ordinanze r.o.
nn. 54, 63 e 94 del 2012) la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., in quanto tali
misure, intrinsecamente irragionevoli, sarebbero inserite in una manovra priva
di dimensione solidaristica.
3.— A tutte queste censure che, come
detto, riguardano il comma 22 complessivamente considerato, si aggiungono altri
profili che specificano ulteriormente la prospettata illegittimità
costituzionale, anche con riferimento al principio di tutela dell’affidamento
ed all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria, necessario a garantire
un processo giusto ed equo davanti ad un tribunale indipendente, come previsto
dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
4.— Con specifico riferimento al
meccanismo di blocco temporaneo degli adeguamenti stipendiali, i rimettenti,
oltre a richiamare il nucleo fondamentale di censura costituito dalla asserita
violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sostengono
che la disciplina in esame non avrebbe tenuto conto della giurisprudenza di
questa Corte, in relazione alla necessità che simili interventi debbano essere
«eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso».
5.— Con riguardo all’indennità giudiziaria
prevista dall’art. 3 della legge n. 27 del 1981, a giudizio dei TAR rimettenti,
le decurtazioni operate avrebbero tutte le caratteristiche elaborate dalla
giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie alcune entrate.
In particolare, si tratterebbe di una prestazione doverosa, in mancanza di un
rapporto sinallagmatico tra le parti, collegata alla pubblica spesa in
relazione ad un presupposto economicamente rilevante.
Secondo i rimettenti, la qualificazione
come mera riduzione di spesa non riuscirebbe ad escludere la reale natura
tributaria delle misure.
Ciò posto, sarebbe evidente l’illegittimità
dell’art. 9, comma 22 (ed anche della disposizione riguardante il “contributo
di solidarietà” di cui al comma 2), in quanto il legislatore, a parità di
capacità contributiva ed in violazione dell’art. 53 della Costituzione, avrebbe
deciso di colpire, con misure continuative, solo una particolare e ristretta
classe di contribuenti.
Sussisterebbe, dunque, la violazione degli
artt. 3, 23 e 53 della Costituzione, in quanto, indipendentemente dal nomen
iuris utilizzato, la misura adottata si concreterebbe in una prestazione
patrimoniale imposta di natura sostanzialmente tributaria.
I rimettenti sostengono che sarebbe
violato, altresì, l’art. 36 della Costituzione, poichè, essendo il trattamento
economico del magistrato considerato adeguato solo in quanto integrato dalla
indennità giudiziaria, la decurtazione di quest’ultima determinerebbe
un’alterazione dei principi di proporzione e adeguatezza degli stipendi,
incidendo solo sull’aspetto quantitativo della retribuzione.
La misura violerebbe, inoltre, l’art. 3 della
Costituzione, perché la riduzione percentuale di un’indennità fissa, destinata
a compensare gli oneri del lavoro giudiziario, colpirebbe in modo maggiore i
magistrati con minore anzianità di servizio, notoriamente impegnati in sedi
disagiate con esposizione a rischi ed oneri spesso di fatto maggiori dei
colleghi più anziani.
6.— I TAR per l’Abruzzo, Umbria e Calabria
(reg. ord. nn. 46, 53, 54, 74 e 75 del 2012) impugnano, anche l’art. 9, comma
2, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, in relazione al taglio del
trattamento economico complessivo oltre i 90.000 euro ed oltre i 150.000 euro.
I rimettenti assumono che tale intervento
finanziario, piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale
(melius, come una riduzione dei trattamenti economici), avrebbe natura
tributaria.
Tale misura violerebbe gli artt. 3 e 53
della Costituzione, trattandosi di prelievo di natura tributaria, che
colpirebbe solamente la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero
rientrano i magistrati), in contrasto con il principio della «universalità
della imposizione». L’imposta sarebbe, inoltre, discriminatoria, sia in
relazione all’amplissima categoria dei “cittadini”, rispetto alla quale i
dipendenti pubblici sarebbero discriminati ratione status a parità di capacità
economica, sia in relazione alla categoria più ristretta dei “lavoratori”,
risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati.
Tale effetto discriminatorio sarebbe ancor più evidente alla luce della diversa
disciplina riservata al contributo di solidarietà oltre i 300.000 euro di
reddito, previsto per gli altri cittadini, dall’art. 2 del decreto-legge 13
agosto 2011 n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria
e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, il quale, sebbene giustificato dalla
medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la
deducibilità dal reddito complessivo.
7.— I TAR per l’Umbria e per la Calabria
(reg. ord. nn. 54 e 74 del 2012) censurano anche il comma 7 dell’art. 12 del
più volte citato d.l. n. 78 del 2010, che consentendo lo scaglionamento delle
corresponsione dell’indennità (fino a tre importi annuali, a seconda
dell’ammontare complessivo della prestazione), determinerebbe una perdita
patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata previsione di
interessi per la dilazione del pagamento, in deroga alla disciplina delle
obbligazioni pecuniarie.
8.— Infine, il solo TAR per l’Umbria, con
l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 54 del 2012, censura il comma 10 dell’art.
12 del d.l. n. 78 del 2010, il quale dispone che sulle anzianità contributive
maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, si applica l’aliquota del 6,91%,
senza determinare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari
al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa
sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37
del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032
(Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a
favore dei dipendenti civili e militari dello Stato). Il regime risultante
violerebbe gli articoli 3 e 36 della Costituzione, in quanto la trattenuta a
carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita,
produrrebbe una riduzione dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna
misura collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato.
9.— In via preliminare, con riferimento al
giudizio iscritto al reg. ord. n. 54 del 2012, va dichiarata l’inammissibilità
dell’atto di intervento ad adiuvandum spiegato da Abbritti Paolo, magistrato
ordinario, intervenuto nel giudizio a quo con atto depositato solo successivamente
all’ordinanza di rimessione e, quindi, allorché tale giudizio era stato già
sospeso.
Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, «sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di
legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi
portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura» (per tutte, sentenze n.
304, n. 293 e n. 199 del 2011; n. 151 del 2009).
In applicazione di detto principio, poiché
nel caso di specie, tenuto conto del tempo in cui è stato spiegato l’intervento
nel giudizio principale e della mancata pronuncia sullo stesso da parte del
TAR, non può ritenersi che Abbritti Paolo abbia assunto la qualità di parte nel
processo a quo, l’intervento da questi spiegato nel giudizio davanti a questa
Corte va dichiarato inammissibile (sentenza n. 220 del 2007 e ordinanza n. 393
del 2008).
9.1.— Ancora in via preliminare, con
riferimento ai giudizi iscritti al reg. ord. nn. 46 e 53 del 2012, va
dichiarata la manifesta inammissibilità della questione avente ad oggetto
l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010.
In particolare, il TAR per l’Abruzzo, dopo
aver premesso che i ricorsi proposti riguardano le decurtazioni conseguenti
all’applicazione dell’art. 9, comma 22, conclude affermando che le medesime
censure enucleate con riguardo a tale ultima norma varrebbero, «a maggior
ragione», per il prelievo disposto dal comma 2, in quanto incidente
direttamente sul trattamento stipendiale dei ricorrenti.
Analogamente, il TAR per l’Umbria (reg.
ord. n. 53 del 2012) premette che i ricorrenti si dolgono del mancato
adeguamento automatico delle proprie retribuzioni, nonché della decurtazione
subita dall’indennità giudiziaria ad essi spettante. Prosegue, altresì,
affermando come risulti rilevante e non manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 9 e, tuttavia, procede in
conclusione ad impugnare anche la norma contenuta nel citato comma 2, relativa
alla riduzione del trattamento economico complessivo superiore a 90.000 euro ed
a 150.000 euro.
In entrambi i casi, poiché tale profilo
del trattamento economico non aveva fatto parte dei motivi di ricorso delle
parti del giudizio, la questione di legittimità costituzionale risulta
manifestamente inammissibile, in quanto sollevata in relazione ad una norma di
cui il giudice rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo (ex
pluribus ordinanze n. 256 del 2009 e n. 265 del 2008).
10.— Ad analoga conclusione deve
pervenirsi con riferimento alle questioni sollevate dalle ordinanze dei TAR per
l’Umbria e per la Calabria, aventi ad oggetto l’art. 12, comma 7, inerenti alle
modalità di corresponsione dell’indennità di buonuscita.
In particolare, secondo i giudici a
quibus, la questione sarebbe rilevante poiché detta norma dovrà essere
sicuramente applicata all’atto di cessazione dal servizio dei ricorrenti,
comunque ed in qualsiasi tempo avvenga. Tuttavia, nessuno dei rimettenti riferisce
di essere investito di una domanda da parte di un magistrato in quiescenza, per
qualunque causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, che abbia subito gli
effetti della norma. L’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a
ricorrere rende evidente come i rimettenti non debbano fare applicazione della
norma impugnata. Inoltre, neppure risulta individuato alcun immediato
pregiudizio subito dai magistrati in servizio, diverso dalla rateizzazione, che
essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di
età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età
o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per
anzianità di servizio, ovvero per dimissioni.
Anche tale questione va, pertanto,
dichiarata manifestamente inammissibile.
11.— Nel merito, le questioni relative
all’art. 9, comma 22, del citato d.l. n. 78 del 2010, sollevate con riferimento
alla violazione degli artt. 3, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sono
fondate.
11.1.— La norma stabilisce che, per il
personale di cui alla legge n. 27 del 1981, «non [siano] erogati, senza
possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il
conguaglio del triennio 2010-2012»; e che «per il triennio 2013-2015 l’acconto
spettante per l’anno 2014 [sia] pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e
il conguaglio per l’anno 2015 [venga] determinato con riferimento agli anni
2009, 2010 e 2014». Infine, il medesimo comma dispone che nei confronti del
predetto personale non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 21,
secondo e terzo periodo.
11.2.— Il meccanismo di adeguamento delle
retribuzioni dei magistrati ordinari, nonché dei magistrati del Consiglio di
Stato, della Corte dei conti, della giustizia militare e degli Avvocati e
Procuratori dello Stato è stabilito dagli artt. 11 e 12 della legge 2 aprile
1979, n. 97 (Norme sullo stato giuridico dei magistrati e sul trattamento
economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della
giustizia militare e degli avvocati dello Stato), come sostituiti dall’art. 2
della citata legge n. 27 del 1981. Tali norme dispongono che gli stipendi dei
magistrati sono adeguati automaticamente ogni triennio, nella misura
percentuale pari alla media degli incrementi delle voci retributive, esclusa
l’indennità integrativa speciale, ottenuti dagli altri pubblici dipendenti
(appartenenti alle amministrazioni statali, alle aziende autonome dello Stato,
università, regioni, provincie e comuni, ospedali ed enti di previdenza). La
percentuale viene calcolata dall’Istituto centrale di statistica rapportando il
complesso del trattamento economico medio per unità corrisposto nell’ultimo
anno del triennio di riferimento al trattamento economico medio dell’ultimo
anno del triennio precedente, ed ha effetto dal 1° gennaio successivo a quello
di riferimento. La determinazione di tale percentuale è poi disposta entro il
30 aprile del primo anno di ogni triennio con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro della giustizia e con
quello dell’economia e delle finanze. Sulla base di questo provvedimento, gli
stipendi al 1° gennaio del secondo e del terzo anno di ogni triennio sono
aumentati, a titolo di acconto sull’adeguamento triennale, per ciascun anno e
con riferimento sempre allo stipendio in vigore al 1° gennaio del primo anno,
per il 30 per cento della variazione percentuale verificatasi fra le
retribuzioni dei dipendenti pubblici nel triennio precedente, con conseguente
conguaglio a decorrere dal 1° gennaio del triennio successivo.
11.3.— Posta questa premessa, va osservato
che, nonostante l’imprecisione della normativa denunciata, la quale considera
come anno di acconto il 2012, correttamente i rimettenti hanno ritenuto che
tale disciplina non possa ingenerare dubbi in relazione alle modalità della sua
applicazione, trattandosi comunque di un blocco della corresponsione di somme,
indipendentemente dal fatto che esse siano dovute a titolo di acconto o di
conguaglio.
11.4.— Nel merito, va ricordato che questa
Corte, nel decidere questioni concernenti norme aventi ad oggetto la
retribuzione e la disciplina dell’adeguamento retributivo dei magistrati, anche
e soprattutto in riferimento a misure economico-finanziarie che ne hanno
ritardato o comunque disciplinato gli effetti nel tempo, ha affermato, in
generale, che l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche
mediante «l’apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue
varie articolazioni, concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in
carriera, anche il trattamento economico» (sentenza n. 1 del 1978).
La sentenza n. 238 del 1990 ha delineato
la funzione dell’adeguamento triennale e dei meccanismi rivalutativi della
retribuzione dei magistrati, affermando che, «In attuazione del precetto
costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche
sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano soggetti a
periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il legislatore ha col
citato art. 2 predisposto un meccanismo di adeguamento automatico delle
retribuzioni dei magistrati che, in quanto configurato con l’attuale ampiezza
di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo».
Successivamente, la sentenza n. 42 del
1993 ha ribadito che il sistema di adeguamento automatico è caratterizzato
dalla garanzia di un aumento periodico delle retribuzioni, che viene assicurato
per legge, sulla base di un meccanismo che costituisce un «elemento intrinseco
della struttura delle retribuzioni» la cui ratio consiste nella «attuazione del
precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati, che va salvaguardato
anche sotto il profilo economico (…) evitando tra l’altro che essi siano
soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri». La Corte,
in quella occasione, ha altresì ribadito che il meccanismo di cui all’art. 2
«in quanto configurato con l’attuale ampiezza di termini di riferimento,
concretizza una guarentigia idonea a tale scopo». Lo stesso principio è stato
ancora di recente enunciato in relazione alla disciplina dell’indennità di
funzione (ordinanze n. 137 e n. 346 del 2008).
Secondo una univoca giurisprudenza
costituzionale, pertanto, sussiste un collegamento fra tale disciplina ed i precetti
costituzionali summenzionati, nel senso della imprescindibilità dell’esistenza
di un meccanismo, sia pure non a contenuto costituzionalmente imposto, che
svincoli la progressione stipendiale da una contrattazione e, comunque, in modo
da evitare il mero arbitrio di un potere sull’altro. Va aggiunto, poi, che
siffatti principi sono confortati dai lavori preparatori della Costituente, dai
quali traspare che l’omessa indicazione specifica dell’indipendenza economica
delle magistrature non ha significato l’esclusione di tale aspetto dal
complesso di condizioni necessario per realizzare l’autonomia ed indipendenza
delle stesse (resoconti dei lavori dell’Assemblea 6 novembre 1947, nella seduta
pomeridiana; 20 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 26 novembre 1947,
nella seduta antimeridiana; 7 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 13
novembre 1947, nella seduta antimeridiana; 14 novembre 1947, nella seduta
antimeridiana; 21 novembre 1947, nella seduta pomeridiana; 11 novembre 1947,
nella seduta pomeridiana).
La specificità di tale disciplina
costituisce, peraltro, anche conseguenza del fatto che la magistratura,
nell’organizzazione dello Stato costituzionale, esercita una funzione ad essa
affidata direttamente dalla Costituzione. Per questa ragione, attraverso un
meccanismo di adeguamento automatico del trattamento economico dei magistrati,
la legge, sulla base dei principi costituzionali, ha messo al riparo
l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di
interferenza, che potesse, sia pure potenzialmente, menomare tale funzione,
attraverso una dialettica contrattualistica. In tale assetto costituzionale,
pertanto, il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo ed
indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro, in cui il
contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale
rapporto.
11.5.— In occasione di pregresse manovre
economiche, recanti deroghe temporanee a tali meccanismi rivalutativi di
adeguamento, disposte, in particolare, in occasione della grave congiuntura
economica del 1992, questa Corte ha già indicato i limiti entro i quali un tale
intervento può ritenersi rispettoso dei principi sopra sintetizzati.
In particolare, l’ordinanza n. 299 del
1999, premesso che il decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti
in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni
fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438,
era stato emanato in un momento molto delicato per la vita
economico-finanziaria del Paese, caratterizzato dalla necessità di recuperare
l’equilibrio di bilancio, ha affermato che «per esigenze così stringenti il
legislatore ha imposto a tutti sacrifici anche onerosi (sentenza n. 245 del
1997) e che norme di tale natura possono ritenersi non lesive del principio di
cui all’art. 3 della Costituzione (sotto il duplice aspetto della non
contrarietà sia al principio di uguaglianza sostanziale, sia a quello della non
irragionevolezza), a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali,
transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso». In particolare,
la pronuncia ha precisato che tale intervento, «pur collocandosi in un ambito
estremo, non lede tuttavia alcuno dei precetti indicati, in quanto il
sacrificio imposto ai pubblici dipendenti dal comma 3 del citato art. 7 è stato
limitato a un anno; così come limitato nel tempo è stato il divieto di
stipulazione di nuovi accordi economici collettivi, previsto dal comma 1
dell’art. 7 e che, quindi, tale norma ha imposto un sacrificio non
irragionevolmente esteso nel tempo (sentenza n. 99 del 1995), né
irrazionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini».
Sempre con riferimento al decreto-legge n.
384 del 1992, è stato altresì sottolineato che il cosiddetto “blocco” dallo
stesso stabilito, di cui era evidente il carattere provvedimentale del tutto
eccezionale, esauriva i suoi effetti nell’anno considerato, limitandosi a
impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio del bilancio (sentenza n. 245
del 1997), riconosciute meritevoli di tutela a condizione che le disposizioni
adottate non risultassero arbitrarie (sentenze n. 417 del 1996, n. 99 del 1995,
n. 6 del 1994).
11.6.— Il meccanismo di adeguamento delle
retribuzioni dei magistrati può, dunque, a certe condizioni essere sottoposto
per legge a limitazioni, in particolare quando gli interventi che incidono su
di esso siano collocati in un quadro di analoghi sacrifici imposti sia al
pubblico impiego (attraverso il blocco della contrattazione – sulla base della
quale l’ISTAT calcola l’aumento medio da applicare), sia a tutti i cittadini,
attraverso correlative misure, anche di carattere fiscale.
Allorquando la gravità della situazione
economica e la previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo
considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un
contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico
impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il
periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio.
Nel caso di specie, i ricordati limiti
tracciati dalla giurisprudenza di questa Corte risultano irragionevolmente
oltrepassati.
11.7.— In primo luogo, la disciplina
censurata ha posto nel nulla la determinazione già disposta con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri del 23 giugno 2009, che aveva fissato
l’incremento con decorrenza dal 1° gennaio 2009, incidendo quindi sul
conguaglio del 2012. Pertanto, assume rilievo decisivo la constatazione che, in
relazione a questo aspetto, l’intervento per il solo personale della
magistratura eccede l’obiettivo di realizzare un “raffreddamento” della
dinamica retributiva ed ha, invece, comportato una vera e propria irragionevole
riduzione di quanto già riconosciuto sulla base delle norme che disciplinano
l’adeguamento.
In secondo luogo, oltre ad essere disposto
non solo un raffreddamento della dinamica retributiva, bensì una riduzione di
quanto già spettante per il 2012, è stato impedito qualsiasi recupero di tale
progressione, con l’imposizione di un “tetto” per il conguaglio dell’anno 2015,
determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; escludendo pertanto il
triennio 2011-2013 e con un effetto irreversibile.
La fissazione di un “tetto” per l’acconto
dell’adeguamento relativo all’anno 2014 e di un “tetto” per il conguaglio
dell’anno 2015, scollegato peraltro dalle esigenze di bilancio che governano il
provvedimento, costituisce, infatti, un ulteriore illegittimo superamento dei limiti
temporali dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore per il
triennio 2011-2013. Tale disciplina, in quanto suscettibile di determinare
effetti permanenti del blocco dell’adeguamento soltanto per le categorie
interessate dal medesimo blocco, determina per ciò stesso la violazione
dell’art. 3 Cost., nonché dei ricordati principi costituzionali posti a
presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. La disciplina
in esame realizza, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento fra la
categoria dei magistrati e quella del pubblico impiego contrattualizzato, che,
diversamente dal primo, vede limitata la possibilità di contrattazione soltanto
per un triennio.
Inoltre, l’intervento normativo in
questione non solo copre potenzialmente un arco di tempo superiore alle
individuate esigenze di bilancio, ma soltanto apparentemente è limitato nel
tempo, se si considerano le analoghe misure pregresse che hanno interessato i
meccanismi di adeguamento, in particolare, con riferimento all’art. 1, comma
576, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), che
riduceva la corresponsione dell’adeguamento maturato.
In tale contesto, il fatto che i magistrati,
in quanto esclusi dalla possibilità di interloquire in sede contrattuale, si
giovino degli aumenti contrattuali soltanto con un triennio di ritardo, salva
la previsione di acconti, non può consentire di arrecare esclusivamente ad essi
un ulteriore pregiudizio, consistente non soltanto nella mancata progressione
relativa al triennio precedente, ma anche conseguente all’impossibilità di
giovarsi di quella che la contrattazione nel pubblico impiego potrebbe
raggiungere oltre il triennio di blocco. In questo senso, l’intervento
normativo censurato, oltre a superare i limiti costituzionali indicati dalla
giurisprudenza di questa Corte, che collocava in ambito estremo una misura
incidente su un solo anno, travalica l’effetto finanziario voluto, trasformando
un meccanismo di guarentigia in motivo di irragionevole discriminazione.
In definitiva, la disciplina censurata
eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive, in danno di una
sola categoria di pubblici dipendenti.
11.8.— Va, pertanto, dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010,
nella parte in cui dispone che, per il personale di cui alla legge n. 27 del
1981, non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni
2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale
personale, per il triennio 2013-2015, l’acconto spettante per l’anno 2014 è
pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015
viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella
parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo
del comma 21.
12.— La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 22, del citato decreto-legge n. 78 del 2010,
nella parte in cui stabilisce la decurtazione dell’indennità prevista dall’art.
3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, sollevata in riferimento agli articoli 3
e 53 Cost., è fondata.
12.1.— In limine, va osservato che la
giurisprudenza di questa Corte ha dapprima definito tale indennità come voce
collegata al “servizio istituzionale svolto dai magistrati” (ordinanza n. 57
del 1990).
Successivamente, la sentenza n. 238 del
1990 ha ulteriormente precisato che la “speciale” indennità di cui si tratta,
correlandosi al peculiare status dei magistrati, costituisce una componente del
loro normale trattamento economico, soggetto ad una regolamentazione autonoma.
Tale componente, tuttavia, secondo la Corte, è necessariamente correlata al
concreto esercizio delle funzioni, in quanto espressamente collegata ai
particolari “oneri” che i magistrati “incontrano nello svolgimento della loro
attività”, la quale comporta peraltro un impegno senza prestabiliti limiti
temporali. La corresponsione della stessa è, dunque, strettamente connessa
all’effettiva prestazione del servizio (sentenza n. 407 del 1996 e ordinanza n.
106 del 1997).
Con riferimento alla erogazione di tale
indennità nel caso di astensione obbligatoria dal lavoro dei magistrati, la
Corte ha ribadito la peculiarità di tale voce stipendiale, sia dal punto di
vista del regime di corresponsione e di rivalutazione, sia dal punto di vista
della specialità della sua ispirazione al precetto costituzionale di autonomia
ed indipendenza (ordinanze n. 346 del 2008, n. 137 del 2008, n. 290 del 2006).
Ai fini della decisione occorre, dunque,
tenere conto del fatto che tale indennità, sebbene sia stata nel tempo
considerata anche come una componente normale della retribuzione, non ha perso
la sua natura particolare, conseguente all’essere la stessa diretta a
compensare un complesso di oneri inscindibilmente connessi alle modalità di
esercizio delle funzioni svolte dai magistrati.
12.2.— Ciò posto, occorre preliminarmente
stabilire la natura giuridica del prelievo stabilito dalla norma impugnata, la
quale statuisce che l’indennità «spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, è
ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012 e del 32% per l’anno
2013».
12.3.— Questa Corte non ritiene che la
disposizione in esame preveda una mera progressiva riduzione dell’indennità.
In primo luogo, la formula utilizzata dal
legislatore non lascia adito a dubbi sul fatto che l’indennità continui ad
assolvere la sua originaria funzione di compensare i particolari oneri connessi
al servizio istituzionale svolto dai magistrati. La “riduzione”, infatti, non
opera ai fini previdenziali e, pertanto, integra non una decurtazione retributiva,
ma un prelievo triennale straordinario per aliquote crescenti.
In secondo luogo, confinare la misura
finanziaria in esame nell’ambito retributivo significherebbe incorrere in una
contraddizione, dato che dovrebbero ritenersi corrispondentemente ridotti, nel
periodo considerato, quei particolari oneri che essa è diretta a compensare,
riduzione che, all’evidenza, è esclusa. Tale opzione ermeneutica, inoltre,
condurrebbe ad una conclusione altrettanto irragionevole, poiché essa
attribuirebbe al legislatore l’intento di ridurre una componente connessa ad
una soluzione organizzativa in cui l’amministrazione pubblica, piuttosto che
optare per un diretto impiego di moduli organizzativi e strumentali che tengano
indenni economicamente i magistrati dai predetti oneri, ha ritenuto più
vantaggioso affidarne a questi ultimi una porzione, previo specifico ristoro
economico, sottratto, dunque, ad imposizioni tributarie diverse da quelle che
già colpiscono, a mezzo ritenuta, tali somme.
Per altro verso, poi, trattandosi di una
componente del trattamento economico collegata ai principi di autonomia ed
indipendenza della magistratura, la sua riduzione, in sé, in aggiunta alla
mancata rivalutazione, determinerebbe un ulteriore vulnus della Costituzione.
Vero è che, esclusa la configurabilità di
un prelievo forzoso sine causa, deve ritenersi che la decurtazione oggetto
della questione di costituzionalità, nonostante il riferimento testuale ad una
“riduzione” e ad un “contenimento delle spese”, rivesta carattere tributario,
trattandosi all’evidenza di una prestazione patrimoniale imposta, realizzata
attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinata a sovvenire
le pubbliche spese. La ratio della disposizione censurata, in altri termini, è
quella di reperire risorse per l’erario.
La giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie
tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via
prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del
soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un
rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un rapporto
di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico statale “non contrattualizzato”);
le risorse connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti
dalla suddetta decurtazione sono destinate a sovvenire pubbliche spese.
Questi tre richiamati requisiti,
congiuntamente considerati, ricorrono nella misura in esame, considerato che
l’indennità giudiziaria partecipa di una natura retributiva e la sua
decurtazione, ai fini del «contenimento delle spese in materia di impiego
pubblico» (come reca la rubrica dell’art. 9 censurato), costituisce il
dichiarato e prevalente intento del legislatore. Inoltre, la misura denunciata
neppure ha modificato l’istituto dell’indennità giudiziaria, perché alla
temporanea diminuzione di alcuni punti percentuali della entità di tale
indennità non corrisponde, come sopra precisato, né la correlativa riduzione
degli obblighi e prestazioni previdenziali, né la riduzione dei carichi
lavorativi che l’indennità è diretta a compensare. Infine, l’assenza di una
espressa indicazione della destinazione delle maggiori risorse conseguite dallo
Stato non esclude che siano destinate a sovvenire pubbliche spese, e, in
particolare, a stabilizzare la finanza pubblica, trattandosi di un usuale
comportamento del legislatore quello di non prevedere, per i proventi delle
imposte, una destinazione diversa dal generico “concorso alle pubbliche spese”
desumibile dall’art. 53 Cost. Nella specie, tale destinazione si desume anche
dal titolo stesso del decreto-legge: «Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», in coerenza con le
finalità generali delle imposte.
12.4.— Ritenuta la natura tributaria della
misura in esame, questa non è immune dalle censure di illegittimità
costituzionale prospettate da tutti i rimettenti con riferimento agli articoli
3 e 53 Cost.
Il tributo che interessa incide su una
particolare voce di reddito di lavoro, che è parte di un reddito lavorativo
complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli
altri percettori di reddito di lavoro; e introduce, quindi, senza alcuna giustificazione,
un elemento di discriminazione soltanto ai danni della particolare categoria di
dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia dell’indennità
giudiziaria. Con la sua applicazione, infatti, viene colpita piú gravemente, a
parità di capacità contributiva per redditi di lavoro, esclusivamente detta
categoria. Ove, poi, si potesse prescindere da tale pur decisiva
considerazione, la previsione di siffatto tributo speciale comporterebbe
comunque una ingiustificata disparità di trattamento con riguardo alle
indennità percepite dagli altri dipendenti statali, non assoggettate, negli
stessi periodi d’imposta, ad alcun prelievo tributario aggiuntivo. È opportuno
sottolineare che l’indicata disparità di trattamento è tanto piú ingiustificata
in quanto proprio la sopra ricordata funzione dell’indennità giudiziaria di
compenso all’attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune
organizzative dell’apparato della giustizia, esige il piú scrupoloso rispetto
da parte del legislatore dei canoni della ragionevolezza e dell’uguaglianza.
12.5.— Va, pertanto, dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010,
nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3 della
legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni
2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per l’anno 2012
e del 32% per l’anno 2013.
Restano assorbite le ulteriori censure.
13.— La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in
riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è del pari fondata.
13.1.— La disposizione, nella parte
censurata, prevede che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre
2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di
qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle
amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica
(ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196,
superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente
il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente
150.000 euro».
13.2.— Anche la decisione su tale
questione richiede, preliminarmente, di accertare se la norma censurata preveda
una mera riduzione del trattamento economico, incidente solo sul contenuto del
rapporto lavorativo dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (come
afferma l’Avvocatura generale dello Stato), oppure introduca un vero e proprio
prelievo tributario (come sostengono i TAR rimettenti).
13.2.1.— Come già osservato in precedenza,
questa Corte ha piú volte affermato che, indipendentemente dal nomen iuris
attribuitole dal legislatore, al fine di valutare se una decurtazione
patrimoniale definitiva integri un tributo, occorre interpretare la disciplina
sostanziale che la prevede alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza
costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria di tributo: cioè la
doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le
parti, nonché il collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in
relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis, sentenze n.
141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). Un
tributo consiste, quindi, in un «prelievo coattivo che è finalizzato al
concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in
base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del
2008); indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione
tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del
1965, n. 45 del 1964).
13.2.2.— Tanto premesso, va constatato che
la disposizione impugnata (introdotta dal medesimo incipit e sorretta dalla
medesima ratio del contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo» e convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, la cui natura tributaria è indubitabile)
partecipa di tutti i sopra indicati elementi caratteristici del prelievo tributario.
In primo luogo, è stata stabilita in via
autoritativa una decurtazione patrimoniale («riduzione» del trattamento
economico), senza che rilevi la volontà – in ordine all’an, al quantum, al
quando ed al quomodo – di chi la subisce.
In secondo luogo, la norma stabilisce che
le risorse rese disponibili dalla «riduzione» del trattamento economico sono
acquisite al bilancio dello Stato, senza operare alcuna distinzione tra le
diverse categorie di dipendenti pubblici e, in particolare, tra i dipendenti pubblici
statali e non statali. Ne deriva che la misura finanziaria in esame non può
integrare una nuova disciplina del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro
e dipendente, perché lo Stato non avrebbe titolo per modificare con la
disposizione in esame i trattamenti economici di rapporti lavorativi di cui non
è parte. In altri termini, gli enti pubblici non statali (territoriali o no),
nella loro qualità di datori di lavoro, non traggono alcun beneficio economico
dalla predetta «riduzione», ma agiscono come «sostituti d’imposta» per le
imposte sui redditi, trattenendo gli importi indicati dalla norma denunciata
(quali «ritenute alla fonte») e provvedendo al loro «versamento diretto»
all’erario per conto dei “sostituiti” propri dipendenti (ai sensi degli artt.
1, lettera b, e 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni
sulla riscossione delle imposte sul reddito»). Inoltre, la permanenza degli
obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» (terzo periodo dell’impugnato
comma 2: «La riduzione […] non opera ai fini previdenziali») costituisce
ulteriore e definitiva dimostrazione che la temporanea decurtazione del
trattamento economico integra, in realtà, un prelievo a carico del dipendente
pubblico e non una modificazione (peraltro unilaterale) del contenuto del
rapporto di lavoro, alla quale avrebbe dovuto necessariamente conseguire,
secondo ragionevolezza, una corrispondente modificazione di tali obblighi. Né a
conclusioni diverse può giungersi per i soli dipendenti statali cosiddetti “non
contrattualizzati”, per i quali una modifica del trattamento economico avrebbe
necessariamente richiesto un intervento legislativo. È evidente, infatti, che
l’unitarietà della disciplina posta dalla norma censurata (che, come già
osservato, non distingue tra diverse categorie di dipendenti pubblici ed ha
riguardo al «trattamento economico complessivo», comprensivo anche di voci
stipendiali ed indennitarie corrisposte allo stesso soggetto da diverse
amministrazioni pubbliche) e la permanenza in ogni caso degli obblighi
previdenziali al lordo della «riduzione» impediscono di ritenere che per i soli
dipendenti statali non contrattualizzati la norma impugnata abbia introdotto
una nuova, temporanea e parziale disciplina del rapporto lavorativo. L’unica
particolarità per i dipendenti statali (contrattualizzati o no) consiste nel
fatto (non rilevante ai fini del presente giudizio) che il prelievo è
effettuato dallo Stato mediante «ritenuta diretta», ai sensi degli artt. 1,
lettera a), e 2 del d.P.R. n. 602 del 1973.
In terzo luogo, sussiste il collegamento
del prelievo con la pubblica spesa, in quanto lo stesso legislatore afferma che
la norma impugnata risponde alla dichiarata ratio di destinare le risorse rese
disponibili dalla decurtazione patrimoniale del trattamento economico
complessivo dei dipendenti pubblici al bilancio dello Stato per raggiungere,
nei tempi previsti, gli obiettivi concordati in sede europea, cioè il pareggio
di bilancio e, in particolare, la diminuzione del debito pubblico.
In quarto luogo, il presupposto
economicamente rilevante in relazione al quale è previsto il prelievo è, con
tutta evidenza, il complessivo reddito di lavoro conseguito dal dipendente
pubblico nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013. Le stesse
modalità applicative della misura seguite dal Ministero dell’economia e delle
finanze, includendo nel montante lordo liquidato nel corso dell’anno, anche gli
arretrati sia relativi all’anno corrente che per anni precedenti, sia delle
competenze fisse che di quelle accessorie, ricollega la misura, più che al
trattamento economico del dipendente, al reddito da lavoro pubblico, che
concorre a formare il calcolo del risultato impositivo.
Occorre, perciò, concludere che la
normativa, nonostante la formulazione letterale della norma in esame, non può
considerarsi una riduzione delle retribuzioni, come sostiene l’Avvocatura dello
Stato, allorchè, nella memoria difensiva, individua la necessità
dell’intervento nel suggerimento dei presidenti (uscente e nominato) della BCE
(banca centrale per la moneta unica europea) contenuto in una lettera al
Governo italiano.
Si tratta, invece, di una imposta speciale
prevista nei confronti dei soli pubblici dipendenti.
13.3.— Ritenuta la natura tributaria del
prelievo stabilito dalla norma censurata, occorre valutarne la conformità con i
parametri evocati.
13.3.1.— In proposito va ricordato che,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la Costituzione non impone affatto
una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e
proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece
un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema
informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello
specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito
di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà
ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica,
economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del
2000). Pertanto, il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi
di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio sull’uso
ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri
discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna
della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non
arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111 del 1997).
Nella specie, pure considerando al giusto
la discrezionalità legislativa in materia, la norma impugnata si pone in
evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. L’introduzione di una imposta
speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi
di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione víola, infatti, il
principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta
economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi
profili.
Da un lato, a parità di reddito
lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti
pubblici. D’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del
d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura
tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di
reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto
di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore
speciale prelievo tributario oggetto di censura. Nel caso in esame, dunque,
l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella
ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale
identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa
stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso
trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato
di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo
Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei
cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un
“universale” intervento impositivo. L’eccezionalità della situazione economica
che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di
consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel
difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari
e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano.
Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale,
certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con
altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza,
sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale.
In conclusione, il tributo imposto
determina un irragionevole effetto discriminatorio.
13.4.— Di conseguenza, va pronunciata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010,
nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31
dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche
di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle
amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre
2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro
lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo
fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro.
14.— Anche la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010,
sollevata in riferimento agli articoli 3 e 36 Cost. è fondata.
La premessa interpretativa del TAR per
l’Umbria è, innanzitutto, corretta in punto di ricostruzione del quadro
normativo, poiché la mancata espressa esclusione del permanere della trattenuta
a carico del lavoratore non potrebbe indurre a far uso dell’argomento a
silentio sia pure per perseguire un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Il perdurare del prelievo di cui si discute, infatti, oltre a derivare
dall’astratta compatibilità fra il nuovo regime e la disciplina contenuta nel
d.P.R. n. 1032 del 1973, è avvalorato dal fatto che il citato art. 12, comma
10, non contiene affatto una disciplina organica sulle prestazioni
previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, in grado di sostituirsi, in
senso novativo, al d.P.R. n. 1032 del 1973, come del resto ritenuto
dall’Amministrazione in sede applicativa.
Ciò posto, va osservato che fino al 31
dicembre 2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un
accantonamento complessivo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda, con una
trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%, calcolato sempre sull’80%
della retribuzione. La differente normativa pregressa prevedeva dunque un
accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un
miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente di cui
si discute.
Nel nuovo assetto dell’istituto
determinato dalla norma impugnata, invece, la percentuale di accantonamento
opera sull’intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della
rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della “fascia esente”, determina
una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della
quantità del TFR maturata nel tempo.
La disposizione censurata, a fronte
dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del codice civile (ai fini del
computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle anzianità contributive maturate
a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina irragionevolmente l’applicazione
dell’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo
la vigenza della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base
contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento
per l’indennità di buonuscita, in combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29
dicembre 1973, n. 1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione
dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e
quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un
ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli
privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la
disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della
Costituzione.
14.1.— Va, quindi, pronunciata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010,
nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della
rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37, comma 1,
del d.P.R. n. 1032 del 1973.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara
inammissibile l’intervento spiegato, nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 54
del 2012, da Abbritti Paolo;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30
luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispone che, per il personale di cui
alla legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di
magistratura) non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti
degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per
tale personale, per il triennio 2013-2015 l’acconto spettante per l’anno 2014 è
pari alla misura già prevista per l’anno 2010 e il conguaglio per l’anno 2015
viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella
parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo
del comma 21;
3) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 22, del d.l. n. 78 del
2010, nella parte in cui dispone che l’indennità speciale di cui all’articolo 3
della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge,
negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l’anno 2011, del 25% per
l’anno 2012 e del 32% per l’anno 2013;
4) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del
2010, nella parte in cui dispone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al
31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche
di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle
amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre
2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), superiori a 90.000 euro
lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo
fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro;
5) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 10, del d.l. n. 78 del
2010, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente
della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall’art. 37,
comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032
(Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a
favore dei dipendenti civili e militari dello Stato);
6) dichiara la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9,
comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord.
nn. 46 e 53 del 2012, dai TAR per l’Abruzzo e per l’Umbria;
7) dichiara la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 12,
comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata, nei giudizi iscritti al reg. ord.
nn. 54 e 74 del 2012, dai TAR per l’Umbria e per la Calabria.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre
2012.