Cassazione: stop
alle avances in ufficio,
anche se in tono scherzoso
Si rischia una condanna per ingiuria
Lo ha stabilito l'Alta Corte analizzando il caso di un dipendente delle Poste che aveva rivolto a una collega l’epiteto di “pornodiva”
Roma, 22 febbraio 2013 - Basta alle avances sul luogo di lavoro, soprattutto se accompagnate da epiteti ingiuriosi nei confronti delle colleghe. Non ha importanza se questo avviene in un clima di “ilarità” e di “scherzo”, si rischia una condanna per ingiuria.
Lo ha stabilito la Cassazione, annullando con rinvio una sentenza con cui il tribunale di Massa aveva assolto “perché il fatto non costituisce reato” un dipendente delle Poste che aveva rivolto a una collega l’epiteto di “pornodiva”.
L’imputato in primo grado era stato condannato dal giudice di pace a pagare 400 euro di multa e a risarcire i danni alla collega offesa, ma in appello, il tribunale aveva ribaltato la sentenza, pronunciando l’assoluzione, ritenendo che si fosse trattato di una “condotta scherzosa”.
La quinta sezione penale della Suprema Corte ha invece accolto il ricorso della parte civile (il processo continuerà quindi ai soli effetti civili) rilevando che il fatto che “una donna possa tollerare delle avances più o meno tra il serio e il faceto non comporta affatto che ella si debba considerare disposta a farsi prendere a male parole, così come, ancor prima, l’avere risposto con un sorriso alla condotta scherzosa di un collega non autorizza affatto un altro uomo a ritenere che le sue battute siano altrettanto tollerate, o addirittura gradite”.
L’imputato, infatti, si era difeso sostenendo che la sua ‘battuta’ fosse stata pronunciata nell’ambito di un “clima di ilarità” che si era creato nell’ufficio, dopo che alla collega erano state rivolte avances con tono scherzoso da altri uomini presenti, a cui lei aveva risposto sorridendo.
Già in passato, l’uomo era stato costretto a rivolgere scuse alla collega per aver detto frasi dello stesso tenore. Per gli ‘ermellini’, “egli non realizzò alcuna condotta imprudente, nel ricorrere a un certo linguaggio piuttosto che ad espressioni confacenti all’ambiente di lavoro e alla dignità della persona offesa”, ma al contrario, si legge nella sentenza depositata oggi, decise di rivolgere alla collega “in piena coscienza, un epiteto sicuramente denigratorio, valido a descriverla come una donna dai costumi sessuali disinvolti, e adusa a fare ostentazione di comportamenti normalmente da riservare a una sfera di intimità”.
Che taluno “sia aduso - conclude la Corte - a offendere una collega di lavoro, non giustifica affatto che quelle condotte debbano proseguire: tanto meno quando la vittima delle contumelie dimostri di non gradirle affatto, visto che ogni volta invita l’autore delle ingiurie a scusarsi” e il fatto che “poi quelle scuse non fossero respinte, vale semmai a dimostrare la buona educazione di chi le riceveva, non certo a fornire a chi si scusava una patente di legittimità per future condotte di analogo tenore”.
Quotidiano.Net
22 febbraio 2013
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