lunedì 28 maggio 2012

Conversione dei contratti a termine: indennità risarcitoria – Sentenza n. 1411 del 31 gennaio 2012

Conversione dei contratti a termine: indennità risarcitoria – Sentenza n. 1411 del 31 gennaio 2012 Conversione dei contratti a termine: indennità risarcitoria L’indennità spettante al lavoratore nel caso di conversione del contratto a termine in un rapporto a tempo indeterminato ha carattere risarcitorio e copre il periodo fino alla sentenza. Ad affermarlo questa volta é la Corte di cassazione con la sentenza n. 1411 del 31 gennaio 2012. Il caso in esame ha riguardato l’indennità introdotta dall’art. 32, comma 5, della legge 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) prevista in caso di conversione di un rapporto di lavoro a termine in un contratto a tempo indeterminato che fatto sorgere un contrastato contenzioso sul quale oggi la recente sentenza della Suprema Corte sembra ora aver dato definitiva risposta. L’art. 32 del Collegato Lavoro recita testualmente “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.” Ebbene i giudici di merito hanno interpretato la disposizione in maniera differente; in particolare, secondo taluni, l’indennità spettava a copertura del periodo fino all’instaurazione del contenzioso da parte del lavoratore; secondo altri, risultava omnicomprensiva anche del periodo relativo alla durata del contenzioso; altri giudici ancora, ritenevano che l’indennità fosse aggiuntiva alle retribuzioni spettanti per effetto della trasformazioni. La questione era stata oggetto anche di esame da parte della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 303 del 9 novembre 2011, sembrava aver chiuso la vicenda. Il giudice delle leggi aveva infatti escluso profili di incostituzionalità ed aveva interpretato la norma ritenendo che l’indennità fosse da ritenere a copertura di quanto spettante al lavoratore fino alla sentenza. La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 267/2012, tuttavia è intervenuta nuovamente interpretando la norma in maniera difforme da tale indirizzo ritenendo che l’indennità si cumuli alle retribuzioni spettanti al lavoratore dalla data di conversione del rapporto di lavoro (in realtà dalla data in cui il lavoratore aveva messo in mora il datore di lavoro). Una lettura probabilmente originale della norma. Questa volta però è la Corte di Cassazione che interviene nuovamente sulla questione con la sentenza n. 1411 del 31 gennaio 2012 interpretando la norma così come letteralmente sembra più corretto. E cioè ritenendo che l’indennità spetti a copertura del periodo fino alla data della sentenza. Commento a cura dell’avv. Annamaria GALLO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Sentenza 31 gennaio 2012 n. 1411 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DE LUCA Michele – Presidente Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 1760-2008 proposto da: POSTE ITALIANE S.P.A., - ricorrenti - contro P.C.; - intimata - sul ricorso 4439-2008 proposto da: P.C., - controricorrente e ricorrente incidentale - contro POSTE ITALIANE S.P.A.; - intimata avverso la sentenza n. 7144/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 11/01/2007, r.g.n. 5829/04; udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega LUIGI FIORILLO; udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso che ha concluso per il rigetto del ricorso. FATTO Con sentenza in data 7-10-2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma rigettava la domanda proposta da P.C. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità dei termini apposti ai vari contratti di lavoro conclusi tra le parti (per i periodi 9-3-98/30-5-98, 12-11-98/11-12-98, 1-3-99/31- 5-99, per “esigenze eccezionali” ex acc. az. 25-9-97 e succ.) con le pronunce consequenziali. Avverso la detta sentenza la P. proponeva appello riproponendo le domande già rigettate. La società si costituiva e resisteva al gravame. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata l’11-1-2007, in riforma dell’impugnata sentenza dichiarava la nullità dei detti contratti a termine e la “trasformazione in un unico rapporto a tempo indeterminato ancora in atto dal 30-5-1998, rigettava inoltre le richieste di natura risarcitoria (in sostanza essendo avvenuta la messa in mora dopo un triennio dalla scadenza dell’ultimo contratto, ritenendo tale periodo “sufficiente a procurare all’appellante una nuova occupazione”). Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con quattro motivi. La P. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con quattro motivi. DIRITTO Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c.. Con il primo motivo del ricorso principale la società, denunciando violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 in sostanza lamenta che la impugnata sentenza “ha erroneamente affermato che il potere ivi riconosciuto ai contraenti collettivi di introdurre nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle previste dalla legge, sarebbe soggetto a pretesi limiti temporali”, laddove invece la normativa di legge “non prevede alcun limite temporale al riguardo”. Con il secondo motivo la società lamenta che la Corte di merito, in violazione del citato art. 23 e dell’art. 1362 e ss. in relazione degli accordi 25-9-987 e successivi, erroneamente ha subordinato la legittimità dei contratti a termine in oggetto alla “dimostrazione della sussistenza del nesso eziologico tra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze dedotte in contratto, anche con riferimento allo specifico ufficio di applicazione. Con il terzo motivo la ricorrente principale, denunciando sempre violazione del citato art. 23 e dei detti accordi, in sostanza censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto di individuare nella data del 30-4-1998 il preteso termine ultimo di validità ed efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25-9- 97, deducendo in particolare la mancanza di limiti temporali non solo nella disciplina di legge bensì anche in quella collettiva e ribadendo la natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi, in ordine alla persistenza del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e delle esigenze connesse. Con il quarto motivo la società denuncia altresì vizio di motivazione in ordine all’interpretazione dei detti accordi al riguardo. Osserva il Collegio che, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, i primi due motivi sono fondati, mentre infondati risultano il terzo e il quarto. In particolare sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, questa Corte ha ripetutamente affermato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378). In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383. Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866). In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con raccordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230″ (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n. 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.). In applicazione di tali principi nella fattispecie deve quindi ritenersi legittimo il termine apposto al primo contratto, concluso anteriormente alla data del 30-4-1998, in relazione al quale, peraltro, alcuna prova della sussistenza del nesso eziologico tra la singola assunzione e le esigenze dedotte in contratto doveva essere fornita da datore di lavoro, mentre nullo risulta già il termine apposto al contratto successivo relativo al periodo dal 12-11-1998 al 11-12-1998, in base alla semplice considerazione della conclusione dello stesso in data posteriore al termine ultimo fissato dalle parti collettive. In tali sensi va quindi parzialmente accolto il ricorso principale, in sostanza con riferimento al primo contratto, mentre va respinto in relazione ai contratti successivi. Con il ricorso incidentale, poi, la P. censura la impugnata sentenza nella statuizione relativa al rigetto della domanda risarcitoria. In particolare la ricorrente incidentale: con il primo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. in riferimento all’art. 1227 c.c., comma 2; con il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 1227 c.c., comma 2 e dell’art. 2697 c.c.; con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c. e con il quarto motivo lamenta insufficiente motivazione in ordine agli elementi posti a base della ritenuta sufficienza del termine di tre anni per reperire un posto di lavoro in relazione all’art. 2729 cod. civ.. Preliminarmente al riguardo osserva il Collegio che nella fattispecie è applicabile lo ius superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 i quali dispongono che: “5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8. 6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. 7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”. Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. già Cass. Ord. 28-1-2011 n. 2112), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente”. La norma, che “non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in base ad una “interpretazione costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che “il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto intermedio, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”, con la conseguenza che a partire da tale sentenza “è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva” (altrimenti risultando “completamente svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”). Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte Costituzionale, “il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum. Sicché l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione”. Peraltro, “la garanzia economica in questione non è né rigida, né uniforme” e, “anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti”. Così interpretata, la nuova normativa, risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”, ha superato il giudizio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati, con riferimento agli artt. 3, 4, 11,24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1. Orbene tale normativa va applicata nel caso in esame, essendo questa Corte investita al riguardo dai motivi del ricorso incidentale, sorretti da idonei specifici quesiti di diritto (i primi tre) e dalla chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa (il quarto). In via di principio, infatti, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (cfr. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80). Tale condizione sussiste nella fattispecie, per cui, nei sensi e nei limiti del detto ius superveniens, va accolto in parte anche il ricorso incidentale della P.. La impugnata sentenza va pertanto cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione, la quale, attenendosi ai principi sopra richiamati, provvederà nella specie anche ai sensi di quanto disposto in rito dal comma 7 del citato art. 32, statuendo altresì sulle spese di legittimità. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi, accoglie i primi due motivi del ricorso principale, rigetta il terzo e il quarto; accoglie in parte il ricorso incidentale, cassa la impugnata sentenza in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2011. Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2012

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